Catechesi del 10 Marzo 2021

L’espressione “Chiesa come ospedale da campo” non appare nell’enciclica, il Papa usa questa espressione per commentare questa enciclica e per presentarla (Discorso di Papa Francesco ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione - Aula Paolo VI Venerdì, 19 settembre 2014). Rende molto bene l’immagine che Papa Francesco vuole presentare quando parla di Chiesa, non una immagine che cerca la risposta teologica o ecclesiologica ma l’immagine, il progetto che cerca di essere risposta al mondo di oggi e alle sue sfide.

 

Nella quinta parte dell’Esortazione il Pontefice si sofferma sulla dimensione sociale dell’evangelizzazione. L’annuncio cristiano ha nel suo cuore un contenuto ineludibilmente sociale: la vita comunitaria e l’impegno con gli altri. Cfr. EG 176

Confessare un Padre che ama infinitamente ciascun essere umano implica scoprire che «con ciò stesso gli conferisce una dignità infinita». Confessare che il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne umana significa che ogni persona umana è stata elevata al cuore stesso di Dio. Confessare che Gesù ha dato il suo sangue per noi ci impedisce di conservare il minimo dubbio circa l’amore senza limiti che nobilita ogni essere umano. La sua redenzione ha un significato sociale perché «Dio, in Cristo, non redime solamente la singola persona, ma anche le relazioni sociali tra gli uomini». Confessare che lo Spirito Santo agisce in tutti implica riconoscere che Egli cerca di penetrare in ogni situazione umana e in tutti i vincoli sociali: «Lo Spirito Santo possiede un’inventiva infinita, propria della mente divina, che sa provvedere e sciogliere i nodi delle vicende umane anche più complesse e impenetrabili». L’evangelizzazione cerca di cooperare anche con tale azione liberatrice dello Spirito.” EG 178.

Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna, perché Egli ha creato tutte le cose «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), perché tutti possano goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconsiderare «specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del bene comune»”. EG 182

Chi oserebbe rinchiudere in un tempio e far tacere il messaggio di san Francesco di Assisi e della beata Teresa di Calcutta? Essi non potrebbero accettarlo. Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità. La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli. EG 183.

Il Papa rinvia al Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, il cui uso e studio raccomanda vivamente. L’Esortazione infatti, scrive, non è un documento sociale. Ripete ancora una volta che «né il Papa né la Chiesa posseggono il monopolio dell’interpretazione della realtà sociale o della proposta di soluzioni per i problemi contemporanei» EG 184. Quindi, citando Paolo VI, stimola le comunità cristiane ad «analizzare obiettivamente la situazione del loro paese» EG 184.

 Non tutto deve partire dal «centro». Tuttavia, il Pontefice decide di concentrarsi su due grandi questioni che gli sembrano fondamentali in questo momento della storia, perché «determineranno il futuro dell’umanità»: la prima è l’inclusione sociale dei poveri; la seconda, la pace e il dialogo sociale.

Il Papa parte dalla riflessione sulla Scrittura sottolineando che questa prima questione non è un problema sociologico ma di fede e di Vangelo.

Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo. È sufficiente scorrere le Scritture per scoprire come il Padre buono desidera ascoltare il grido dei poveri: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo … Perciò va’! Io ti mando» (Es 3,7-8.10),….

Ritorna sempre la vecchia domanda: «Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio?» (1 Gv 3,17). Ricordiamo anche con quanta convinzione l’Apostolo Giacomo riprendeva l’immagine del grido degli oppressi: «Il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente» (5,4). EG 187

L’imperativo di ascoltare il grido dei poveri si fa carne in noi quando ci commuoviamo nel più intimo di fronte all’altrui dolore. Rileggiamo alcuni insegnamenti della Parola di Dio sulla misericordia, perché risuonino con forza nella vita della Chiesa. Il Vangelo proclama: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7). L’Apostolo Giacomo insegna che la misericordia verso gli altri ci permette di uscire trionfanti nel giudizio divino: «Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia. La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio” (2,12-13). EG 193

Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro «considerandolo come un’unica cosa con sé stesso». Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona e a partire da essa desidero cercare effettivamente il suo bene. Questo implica apprezzare il povero nella sua bontà propria, col suo modo di essere, con la sua cultura, con il suo modo di vivere la fede. L’amore autentico è sempre contemplativo, ci permette di servire l’altro non per necessità o vanità, ma perché è bello, al di là delle apparenze. «Dall’amore per cui a uno è gradita l’altra persona dipende il fatto che le dia qualcosa gratuitamente». Il povero, quando è amato, «è considerato di grande valore», e questo differenzia l’autentica opzione per i poveri da qualsiasi ideologia, da qualunque intento di utilizzare i poveri al servizio di interessi personali o politici. Solo a partire da questa vicinanza reale e cordiale possiamo accompagnarli adeguatamente nel loro cammino di liberazione. Soltanto questo renderà possibile che «i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come “a casa loro”. Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno?». Senza l’opzione preferenziale per i più poveri, «l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone». EG 199

 

I quattro princìpi chiave di Papa Francesco

Nell’Esortazione il Pontefice riprende questi concetti (cfr EG 220- 221) e prosegue indicando, come aveva fatto a Buenos Aires, i quattro pilastri del suo pensiero: il tempo è superiore allo spazio, l’unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea, il tutto è superiore alla parte. Questi quattro princìpi, che a loro volta richiederanno un approfondimento separato, «orientano specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune» (EG 221). Che cosa vuol dire qui Papa Francesco? Col primo principio (il tempo è superiore allo spazio) intende dire che il tempo inizia i processi che richiedono i loro tempi: occorre occuparsi di iniziare processi più che di occupare spazi di potere. È un principio molto ricco che dice molto dell’attitudine del Papa alle riforme. È ben manifestato nella parabola del grano e della zizzania (cfr EG 225). Col secondo principio (l’unità prevale sul conflitto) intende dire che il cittadino deve accettare i conflitti, farsene carico senza lavarsene le mani, ma non rimanerne intrappolato: occorre trasformarli in anelli di collegamento di nuovi processi che prevedano la comunione pur nelle differenze, che vanno accolte come tali. Il Papa aveva riconosciuto nella parabola del Buon Samaritano un modello di riferimento, anche se nell’Esortazione essa non è citata. Col terzo principio (la realtà è più importante dell’idea) Papa Francesco dice che la realtà «è», mentre l’idea è frutto di una elaborazione che può sempre rischiare di cadere nel sofisma, distaccandosi dal reale, fino a rischiare persino il totalitarismo, se vuole imporsi sulla realtà. Per il Papa la realtà è sempre superiore all’idea. Nella politica a volte c’è il rischio di formulare proposte logiche e chiare, magari seduttive, ma non aderenti al reale e dunque incomprensibili per la gente. L’incarnazione (1 Gv 4,2) è il criterio guida di questo principio. Infine, il quarto principio (il tutto è superiore alla parte) afferma che bisogna allargare lo sguardo per riconoscere sempre un bene più grande. In questo senso bisogna prestare attenzione alla dimensione globale per non cadere nel localismo, ma al contempo non perdere di vista la dimensione locale dei processi e «camminare con i piedi per terra» (EG 234). Papa Francesco ha una visione non «sferica» (dove tutti i punti sono equidistanti dal centro), ma «poliedrica», nel senso che il poliedro è l’unione di tutte le parzialità, che nell’unità mantiene l’originalità di tutte le singole parzialità. Alla luce di questi quattro princìpi, il Papa può ribadire: «Nel dialogo con lo Stato e con la società, la Chiesa non dispone di soluzioni per tutte le questioni particolari. Tuttavia, insieme con le diverse forze sociali, accompagna le proposte che meglio possono rispondere alla dignità della persona umana e al bene comune. Nel farlo, propone sempre con chiarezza i valori fondamentali dell’esistenza umana, per trasmettere convinzioni che poi possano tradursi in azioni politiche» (EG 241). Questi princìpi fondano poi a loro volta nel testo dell’Esortazione il dialogo ecumenico (EG 244-246), le relazioni con l’ebraismo (EG 247-249), il dialogo interreligioso (EG 250-254), il dialogo sociale in un contesto di libertà religiosa (EG 255-258). L’ultima parte dell’Esortazione è dedicata a sottolineare la dimensione spirituale dell’evangelizzazione e la necessità di recuperare uno spirito contemplativo: «Non si può perseverare in un’evangelizzazione piena di fervore se non si resta convinti, in virtù della propria esperienza, che non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo», come «non è la stessa cosa cercare di costruire il mondo con il suo Vangelo piuttosto che farlo unicamente con la propria ragione» (EG 266).

Una Chiesa missionaria che supera il centralismo. Più volte Papa Francesco ha sottolineato i limiti dell’Esortazione. Egli non vuole «offrire un trattato», ma «mostrare l’importante incidenza pratica di questi argomenti nel compito attuale della Chiesa» (EG 18). Soprattutto è consapevole che c’è il rischio che i documenti rimangano lettera morta: «Non ignoro che oggi i documenti non destano lo stesso interesse che in altre epoche, e sono rapidamente dimenticati» (EG 25). Tuttavia, il Papa sottolinea che ciò che intende qui esprimere ha «un significato programmatico e delle conseguenze importanti». E prosegue: «Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno» (EG 25). Il Papa però lancia il suo messaggio alle comunità cristiane non solamente perché sia «applicato». Infatti, egli non crede «che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo». Dunque, «Non è opportuno che il Papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”» (EG 16). Il Pontefice stimola le comunità cristiane ad «analizzare obiettivamente la situazione del loro Paese» (EG 184). Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria» (EG 32). In certo modo, dunque, la riflessione del Papa ha lo scopo di mettere in moto le Chiese locali per l’approfondimento e l’azione, intende essere una sorta di corposo avvio della riflessione e uno stimolo all’azione, che non è qualcosa di esteriore, ma parte della nostra identità: la missione «non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere sé stessi come marchiati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare. Lì si rivela l’infermiera nell’animo, il maestro nell’animo, il politico nell’animo, quelli che hanno deciso nel profondo di essere con gli altri e per gli altri» (EG 273). I mezzi invece sono relativi: Maria, del resto, «è colei che sa trasformare una grotta di animali nella casa di Gesù, con alcune povere fasce e una montagna di tenerezza» (EG 286). E il senso di appello e di stimolo è ribadito da una serie di espressioni che stanno al cuore dell’Esortazione e che hanno un chiaro e definitivo tono esortativo: «Non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario!» (EG 80); «Non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione!» (EG 83); «Non lasciamoci rubare la speranza!» (EG 86); «Non lasciamoci rubare la comunità!» (EG 92); «Non lasciamoci rubare il Vangelo!» (EG 97); «Non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno!» (EG 101); «Non lasciamoci rubare la forza missionaria!» (EG 109).

Per concludere la storia del pescivendolo:

Un tale decise di fare il pescivendolo. Trovò il locale adatto per aprire la sua pescheria e sulla facciata vi fece scrivere a grandi caratteri: “Qui si vende pesce fresco”. Qualche giorno dopo giunse un amico e gli disse: “Questa scritta là fuori è molto ben fatta, ma c’è qualcosa in più che sarebbe meglio togliere. Si tratta della parola “qui”. È chiaro che se la scritta è qui davanti, il pesce non lo stai vendendo da un’altra parte. Perciò il “qui” è in più.”

Il pescivendolo trovò giusta la osservazione e, con una pennellata di tinta, cancellò la parola “qui”. Ma dopo alcuni giorni arrivò un altro amico che gli disse: “Caro mio, se hai messo una pescheria non è stato certo per regalarla, non ti pare? È inutile che ci lasci scritto “si vende”, perché tutti sanno che il pesce è qui proprio per questo”.

Il commerciante prese di nuovo il pennello e cancellò “si vende”. Rimase solo “pesce fresco”.

Passò un po’ di tempo e un altro amico ancora venne a dirgli: “Tu sei un uomo onesto e non sei certamente di quelli che vanno a vendere pesce marcio. Inoltre, a nessuno verrebbe in mente di mettere una pescheria di pesce marcio. Chi vende pesce, è chiaro che vende pesce fresco. A che serve, perciò, quel “fresco” sarebbe meglio che tu lo tirassi via”.

Così il pescivendolo prese di nuovo la scaletta, il pennello, e con due pennellate cancellò la parola “fresco”.

Il giorno dopo sopraggiunse un altro amico ancora che, tra il serio ed il faceto, gli disse: “Mi sembra che tu ci prenda per stupidi o che tu sia stupido. Se metti quei grossi pesci in vetrina, tutti possono vederli, e nessuno di noi è così tonto da scambiare un pesce con un maiale o da non sapere cos’è un pesce. Però sembra che ti ci ritenga tutti degli stupidi, perché ci metti in bella mostra i pesci e sopra ci scrivi “pesce”. Non ti pare che, per non offenderci, sarebbe meglio che cancellassi quella parola lì?”

Per farla breve, il pescivendolo, per non dare fastidio a nessuno, tolse l’ultima parola, poi i pesci dalla vetrina e infine perse tutti i clienti e dovette chiudere la pescheria.

Non possiamo fare sconti sul vangelo dobbiamo dare il massimo: “io sono missione”