Parrocchia N.S. de La Salette

OLBIA

CARITAS Parrocchiale

LITURGIA DEL GIORNO

<<pregare con i salmi>>

 

3 LA DOSSOLOGIA FINALE DEL SALTERIO

La volta scorsa c’eravamo soffermati sul sl.1; avete meditato tutta la settimana sul sl.2, adesso cerchiamo di affrontarlo insieme.

Il sl.1 presenta il tema della “Legge”: Beato l’uomo che prova il proprio piacere nella Torah (la legge di Dio).

Il sl.2 presenta il secondo battente: il Messia.

I due grandi temi che si trovano nel Salterio sono: la Legge e il Messia. La Parola di Dio che si è rivelato per farsi conoscere e il re che il Signore suscita per guidare il suo popolo.

 

Questo sl.2 è un rituale di corte, molto antico. Tecnicamente, si chiama “protocollo regale”; ancora oggi esiste il protocollo, inteso come il sistema di procedure degli ambienti importanti: dove ci sono le grandi personalità dello stato, o i monarchi, o il Papa ci sono dei rituali, tanto più per l’ascesa al trono di un re; quando un re sale al trono e inizia il suo ministero, compie dei gesti particolari.

Questo salmo riprende proprio questi gesti del protocollo regale.

Immaginate la scena: un re sale al trono, a Gerusalemme; forse Davide, forse Salomone, il figlio di Davide o forse qualcun altro, ma sale al trono in un momento difficile, quando c’è addirittura la minaccia di un colpo di stato: il momento di successione al trono è sempre pericoloso, tanto più una volta quando questi cambiamenti di regime erano all’ordine del giorno. Pensate che, nel regno di Israele – il Regno del Nord, rispetto a Gerusalemme, ma sempre degli Ebrei – nel giro di 200 anni si sono cambiate otto dinastie; vuol dire che ci sono stati otto colpi di stato che hanno completamente cancellato delle famiglie regnanti e le hanno sostituite con le altre. Ma anche là dove la famiglia ha tenuto il potere, è praticamente impossibile che un re di Israele sia morto di vecchiaia nel suo letto: o è morto in guerra, o è morto assassinato. Tenere il potere era un mestiere difficilissimo, molto pericoloso.

A Gerusalemme, invece, la dinastia di Davide ha resistito 400 anni:

  • otto in 200 al Nord.
  • Sempre la stessa in quasi 400 anni, al Sud.

Dio si era impegnato con Davide, promettendogli una discendenza perenne: “Sempre ci sarà qualcuno sul tuo trono”.

Invece il Regno era finito, la dinastia era estinta, Israele non aveva più un re. Sono proprio questi kassidim che conservano l’attesa e il desiderio di un Re/Messia: un re ufficialmente consacrato, riconosciuto come autentico erede di Davide.

Questo gruppo si considera la comunità messianica: il gruppo dei fedeli del vero re, dell’autentico re. Si considerano loro come Davide; questo particolare è molto importante che spiega perché la comunità cristiana, poi, ha preso il Salterio e lo ha adoperato come strumento di preghiera cristologica, messianica perché era nato così.

 

Leggiamo il salmo 2

Tutto questo ci è servito per inquadrare il problema.

Adesso noi troviamo un testo letterario che queste cose non le spiega, ma comincia con una domanda: Perché le genti congiurano? Perché invano cospirano i popoli, insorgono i re della terra e i principi congiurano insieme, contro il Signore e contro il suo Messia?

Tenete conto che tutto è in una domanda: il salmo inizia con un Perché?

Adesso aggiunge la “parola” che i re, i prìncipi dicono insieme, congiurando: Spezziamo le loro catene, gettiamo via i loro legami.. Sembrano persone incatenate, legate; ma sono prìncipi, sono re; sono dei dipendenti che vogliono buttare via, con i segni della dipendenza, e prendere il potere. Ma perché congiurano?

Avete notato: all’inizio c’è un avverbio invano; è come dire: è tempo perso! Ma perché perdono tempo in queste cose, tanto non ci riescono!

Chi sta parlando?

Vedete che ci troviamo di fronte a dei testi che non sono preghiere, secondo il nostro schema semplice di pensiero; non è una domanda: è una specie di dramma.

Ci sono dei principi e dei re, sono stranieri (i re, i popoli della terra) che congiurano contro.

Chi è il nemico? Il Signore!

Ci sono dei nemici che vogliono fare la guerra contro Yawé e contro il suo Messia (molto importante): non è il messia, qualsiasi, ma il “suo”, il “suo consacrato” è il re che Egli ha consacrato.

 

Seconda scena.

Se ne ride chi abita i cieli

li schernisce dall’alto il Signore.

È l’unica volta, in tutta la Bibbia in cui si dice che Dio rida. Qui si afferma addirittura che se la ride, come dire: perché i potenti di questo mondo si danno così da fare per far la guerra a Dio. Colui che abita i cieli se la ride!

Non solo: li schernisce dall’alto il Signore; è una risata di “derisione”: li schernisce, li prende in giro “Ma fatevi furbi, ma che cosa credete di fare ?!”

 

Dopo la risata,

parla loro con ira, li spaventa col suo sdegno.

Prima ride e scherza, poi sgrida.

 

Prima il salmo ci ha presentato che cosa dicono i congiurati, adesso ci presenta che cosa dice il Signore. Fanno la guerra contro il Signore e il suo Messia e il Signore dice:

Io l’ho costituito mio sovrano sul Sion, mio santo monte.

Ma cosa credete di fare? L’ho costituito io e quindi basta; nessuno lo può toccare!

 

A questo punto, prende la parola il Messia, il re stesso.

Abbiamo visto due attori, per adesso:

  • da una parte, i nemici che congiurano.
  • Dall’altra il Signore: dall’alto se la ride e sgrida.

Terzo personaggio: il Messia, il re che è stato costituito.

Annunzierò il decreto del Signore (eh, sì!) dice: È vero, ho il decreto, il decreto di nomina; sono stato veramente incaricato.

Egli mi ha detto: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra; le spezzerai con scettro di ferro; come vasi d’argilla le frantumerai”.

Ecco il decreto di nomina in cui sono contenute alcune immagini importanti.

  • La prima è quella della figliolanza.

Che cosa vuol dire che Il re è stato generato oggi? Parla della nascita? No! Parla della “ascesa al trono”. Quando nasce il re? Quando diventa re. Il momento della nascita segna l’inizio della vita di un uomo; quando quell’uomo sale al trono e prende il potere, allora nasce come re. Quindi l’immagine della “generazione” è usata per indicare la presa di possesso di quel potere sacro del re-Messia, che viene considerato, a tutti gli effetti, figlio di Dio; Il Signore mi ha detto: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato”. Nel momento in cui il re sale al trono, diventa figlio di Dio.

  • Seconda immagine: il possesso universale delle genti.

Chiedi a me ti darò in possesso le genti.

Attenzione: il Signore dice al messia: Chiedi a me… e io ti darò…Non illuderti di fare con le tue forze; di conquistare il mondo con le tue capacità, chiedi a me; se dipendi da me, io ti darò in possesso in dominio tutti i confini della terra.

Ma pensate all’esagerazione: un re di Gerusalemme regnava su di un territorio piccolissimo. Tutta la terra di Israele ha la superficie della Calabria.

E questi re che sale al trono si illude di avere in possesso tutti i confini della terra? Di diventare il re del mondo? Assolutamente inimmaginabile: sono circondati da tanti re veramente potenti. Eppure, c’è quest’idea di un regno universale, del figlio che chiede al Padre.

  • Terza immagine: Le spezzerai con scettro di ferro, come vasi di argilla le frantumerai.

Questo faceva parte proprio del protocollo regale. Al re che sale al trono viene consegnato lo scettro; lo scettro è un bastone; nell’antichità era, probabilmente, una mazza ferrata: uno strumento da combattimento. Qui viene ricordato uno scettro di ferro, proprio un bastone di ferro che è il segno del potere.

Cosa fa il re, simbolicamente? Spezza i nemici. Davanti al trono, hanno messo delle statuette di terracotta o dei vasi di terra su cui sono disegnate delle figure o incisi dei nomi che rappresentano i nemici e il re, con questo bastone di ferro, spezza tutti i nemici. È un gesto simbolico di potenza, di dominio, di sconfitta.

 

Eccoci alla fine del salmo.

E ora… vuol dire: tiriamo le conclusioni. Cosa ne ricaviamo da questo antico rituale di corte? Qui è probabile che i kassidim abbiano aggiunto: all’antico testo regale è stata fatta un’applicazione spirituale.

E ora, sovrani, siate saggi. Istruitevi, giudici della terra; servite Dio con timore e con tremore esultate.

A chi si rivolge? Non al Signore: è una preghiera non rivolta al Signore, ma è una predica rivolta ai potenti. È un discorso che non riguarda i piccoli, i deboli, ma i sovrani e i giudici della terra; quelli che esercitano un potere sulla terra; e sta dicendo ai capi, ai potenti: “Fatevi furbi; siate saggi; istruitevi; pensateci bene. Voi che comandate, servite.

Vi accorgete che è il discorso evangelico? Se lo leggiamo velocemente, non lo notiamo, ma insistendo sulle parole, sui termini, ci accorgiamo che emerge quella mentalità spirituale che è, poi, quella di Gesù.

“I capi delle nazioni vi dominano; voi però non fate così, ma chi vuol essere il primo, diventi l’ultimo e chi vuole comandare sia il servo: Istruitevi, siate saggi, servite Dio con timore”.

Ecco il “timor di Dio”: il riconoscimento di Dio, la valorizzazione di Dio; riconoscere il suo ruolo e la sua importanza.

Con tremore esultare…: siate contenti; servite, esultate. Servite il Signore con gioia: servitelo come persone contente, non come schiavi costretti. Siate contenti con quel rispetto che lui merita perché è il Signore di tutti. Attenti perché, se si sdegna (se lo fate arrabbiare) voi perdete la via.

Vi ricordate come finiva il sl.1? Il Signore veglia sul cammino dei giusti, ma la via degli empi andrà in rovina.

Attenzione perché, se la vostra è la via degli empi, va in rovina; voi che siete potenti, che comandate, che fate quel che volete perché avete il potere in mano, attenti perché non dure; attenti perché dovete rendere conto: se si sdegna, voi perdete la via; la vostra strada va in rovina.

 

Improvvisa divampa la sua ira. Quando meno ve lo aspettate, vi piomba addosso.

 

Beato chi in lui si rifugia. Chiudiamo il cerchio: il portone è realizzato. Cominciava con beato e termina con beato.

Mi interessa che siate beati, che siate felici e contenti; che siate persone serene, realizzate, ma per essere tali non bisogna essere potenti: bisogna rifiutare il male e confidare nel Signore. Questa è la fonte della beatitudine.

 

Allora vedete? L’antico frammento lirico del protocollo di corte è stato riutilizzato per un testo sapienziale. Se leggiamo di seguito il sl.1 e 2, non abbiamo una preghiera di domanda, ma abbiamo una riflessione: non siamo noi a dire qualche cosa a Dio, ma semmai è Dio che sta parlando a noi e ci sta presentando la doppia situazione; la via degli empi e la via dei giusti.

Chi sono i giusti? Quelli che seguono il Re/Messia, non quelli che vanno dietro i potenti di questo mondo che congiurano per avere il potere; si illudono.

La strada buona è quella di seguire il Re che è Figlio di Dio, che ha lo scettro di ferro; è lui che regge tutti i popoli.

C’è un’attesa forte di un Messia debole che, però, sarà Re di tutto l’universo.

 

Facciamo una prova.

Nel libro degli Atti degli Apostoli viene citato espressamente questo salmo e ci viene data l’interpretazione che gli Apostoli ne hanno colto. (Atti 4,23 e ss)

Si racconta dell’imprigionamenti di Pietro e di Giovanni, arrestati dai capi del Sinedrio, ma prodigiosamente liberati da un angelo. Gli apostoli ritornano nell’ambiente dei cristiani, contenti di questa liberazione. Ci sono dei capi, dei potenti che hanno messo in prigione gli Apostoli del Cristo; hanno congiurato contro di loro, ma il Signore li ha liberati.

 

Rimessi in libertà, Pietro e Giovanni andarono dai loro fratelli e riferirono quanto avevano detto loro i capi dei sacerdoti e gli anziani. Quando udirono questo, tutti insieme innalzarono la loro voce a Dio dicendo:

La comunità cristiana primitiva prega così.

 

"Signore, tu che hai creato il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano,  tu che, per mezzo dello Spirito Santo, dicesti per bocca del nostro padre, il tuo servo Davide:

Perché le nazioni si agitarono e i popoli tramarono cose vane? Si sollevarono i re della terra e i prìncipi si allearono insieme contro il Signore e contro il suo Cristo;

davvero in questa città Erode e Ponzio Pilato, con le nazioni e i popoli d'Israele, si sono alleati contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai consacrato, per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano deciso che avvenisse.”

Gli apostoli hanno trovato, nel sl.2, la spiegazione di quello che è capitato a Gesù e di quello che è capitato agli apostoli. L’aveva detto il santo servo Davide, a proposito del Santo Servo Gesù: Servite il Signore… Davide è un servo di Dio. Gesù è servo di Dio; sono loro gli autentici re perché sanno servire; gli altri sono dei prepotenti, palloni gonfiati, ridotti al nulla. Hanno congiurato!

Fanno anche dei nomi: Erode e Ponzio Pilato. Hanno tramato contro Gesù.

Adesso i capi del Sinedrio tramano contro gli apostoli e dove arrivano? A niente: il Signore realizza il suo progetto e le posizioni degli avversari vanno in fumo.

Ed ecco la preghiera

29E ora, Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di proclamare con tutta franchezza la tua parola, 30stendendo la tua mano affinché si compiano guarigioni, segni e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù".31 Quand'ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono colmati di Spirito Santo e proclamavano la parola di Dio con franchezza.

La comunità apostolica primitiva prega con i salmi: parte dal salmo, fa l’attualizzazione per sé e per Gesù e completa l’orazione chiedendo al Signore: “Continua l’opera che hai iniziato”.

Questo sl.2 è citato molte, molte volte. Nell’Apocalisse si fa riferimento tre volte a Colui che deve pascere i popoli con scettro di ferro. Chi è? Basta quel particolare: lo scettro di ferro richiama il sl.2; è l’autentico Re/Messia; è il re universale. Lui ha la forza del ferro, rispetto agli altri che sono vasi di terracotta.

Ancora, in Atti c.13,33, un veloce riferimento, ma molto importante.

Paolo sta dicendo agli Ebrei riuniti nella Sinagoga di Antiochia di Pisidia, nel cuore dell’Anatolia (attuale Turchia): Dio ha realizzato la promessa che aveva fatto ai Padri; l’ha compiuta per noi, loro figli… Come ha compiuto la promessa? Risuscitando Gesù.

Dio ha compiuto la promessa risuscitando Gesù come anche sta scritto nel salmo secondo:

Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato.

Noi non l’avremmo vista la risurrezione di Gesù in quel versetto; al massimo avremmo pensato al natale…. Perché non abbiamo capito il salmo, ma Paolo che lo capisce bene sa che, quando Dio dice al Messia: Io oggi ti ho generato, significa che lo fa salire al trono.

Ma quando Gesù è salito al trono? Sulla terra non ha mai fatto il re; quando è morto, è risorto, è salito al cielo, siede alla destra del Padre e il suo regno non avrà fine.

Ma è il regno di Davide quello che non avrà fine! Noi applichiamo a Gesù la promessa fatta a Davide. Gesù sale al trono quando sale al cielo. Allora gli dice il Padre Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato! Questo è il mistero pasquale e Paolo può dire: “Dio ha realizzato la promessa, facendo risuscitare Gesù, come sta scritto nel sl.2”.

Questo dimostra che Pietro e Paolo leggono il sl.2 e lo applicano a Gesù e ne sono consolati. Allora noi, leggendo queste parole e cercando di capire queste frasi, siamo in perfetta sintonia con gli apostoli.

Il portale del salterio dunque ci ha presentato: i nemici, gli empi; chi sono? I prepotenti, quelli che si lasciano dominare dalla mentalità di questo mondo; mentre il giusto è il Messia, il Figlio, colui che serve il Signore, che si affida a lui, che segue la sua via ed il suo stile.

Dalla parte opposta del salterio, troviamo gli ultimi due salmi. Per fare il pendent con il sl.2, quale salmo dobbiamo leggere? Il penultimo (149). Di fatti, tenendoli insieme, riusciamo a capire molto bene il senso complessivo.

Il sl.149 è la chiave di lettura di tutto il salterio.

È quello che, nella ns. liturgia, viene intitolato “Festa degli amici di Dio”; gli amici di Dio sono i Kassidim; lo siamo anche noi, modestamente.

Festa: un salmo festivo degli amici di Dio che sono contenti e che fanno festa.

Nella nostra liturgia delle ore viene adoperato molto spesso perché, essendo la domenica della prima settimana, in tutte le feste ritorna insieme al salmo di Davide, nel deserto che, come terra arida, ha sete di Dio.

Leggiamo il sl 149:

Alleluia.

Cantate al Signore un canto nuovo;

la sua lode nell'assemblea dei fedeli.

Che parola ebraica c’è per “fedeli”? Kassidim

2 Gioisca Israele nel suo creatore,

esultino nel loro re i figli di Sion.

3 Lodino il suo nome con danze,

con tamburelli e cetre gli cantino inni.

4 Il Signore ama il suo popolo,

incorona i poveri di vittoria.

Gli umili, i poveri sono gli anawin, i poveri di Dio.

5 Esultino i fedeli (kassidim) nella gloria,

facciano festa sui loro giacigli.

6 Le lodi di Dio sulla loro bocca

e la spada a due tagli nelle loro mani,

7 per compiere la vendetta fra le nazioni

e punire i popoli,

8 per stringere in catene i loro sovrani,

i loro nobili in ceppi di ferro,

9 per eseguire su di loro la sentenza già scritta.

Questo è un onore per tutti i suoi fedeli. (kassidim)

Alleluia.

Avete visto che l’insistenza sul termine è importante. L’ho fatto apposta a farvi notare che la parola Kassidim c’è all’inizio, a metà ed alla fine.

Adesso andiamo per ordine e vediamo il senso del tutto.

Questo è un inno: un invito alla lode.

Cantate al Signore un canto nuovo: è una formula comune; c’è molte volte. È un ritornello costante. “Un canto nuovo”: partecipate con la vostra vita al canto perché la novità sta nella vostra vita.

La sua lode nell’assemblea dei fedeli: ecco il canto nuovo; la lode di Dio è il fatto che i kassidim siano insieme; “assemblea dei fedeli”, in latino, è tradotto con ecclesia santo rum. Anziché fedeli, il latino traduce santi; ma anche Paolo, quando scriveva ai cristiani, li chiamava “i santi” perché era la terminologia corrente per indicare i fedeli in questo stile della spiritualità dei assidi. La lode di Dio sta nella Chiesa: nel fatto di essere insieme. È una lode esistenziale.

Israele gioisca nel suo Creatore. I figli di Sion esultino nel loro re. Dove si trova la gioia? Nel Creatore, nel Re. Due riferimenti. Dimensione della creazione e dimensione della salvezza (della redenzione).

Lodino il suo nome con le danze, con timpani, con cetre cantino inni. Perché tutta questa festa? Facciano festa e siano contenti perché il Signore ama il suo popolo e incorona gli umili di vittoria.

Nel sl.2 avevamo visto l’intronizzazione di un re: è stato incoronato. Qui, adesso, al posto del Messia, ci sono gli umili (gli anawim); il Signore incorona di vittoria i mansueti, i miti, i poveri in spirito: sono loro che regnano; beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli. Il Signore incorona gli umili. Siano contenti perché il Signore è dalla loro parte.

Esultino gli assidi nella gloria, sorgano lieti dai loro giacigli. Sono tre i significati di queste parole:

1 Si alzino da letto e dicano le preghiere. Infatti noi lo applichiamo alle lodi del mattino: è un invito a sorgere dal giaciglio, alzarsi da letto e pregare il Signore.

2 Sorgere dal giaciglio vuol dire anche tirarsi su dalla depressione, dall’abbattimento. Ti lasci andare? Non hai più voglia?

I giacigli sono immagini di una comunità addormentata, ripiegata su di sé, che non ha voglia, che non ha entusiasmo, che è coricata, che è addormentata.

3 Significato escatologico (relativo al compimento finale): sorgeranno lieti, risorgeranno contenti dalle loro tombe.

C’è una prospettiva di vittoria che va al di là delle prospettive terrene: il Signore incorona gli umili di vittoria  e li farà risorgere; si alzino, quindi, perché il Signore li farà rialzare.

 

Le lodi di Dio sulla loro bocca e la spada a due tagli nelle loro mani.

Questa frase, con quello che segue, a qualcuno non piace e sembra violenta. Se non la capiamo lo è! Non è l’immagine del “libro e moschetto”: lodi di Dio sulla loro bocca, spada a due tagli… Sono due cose diverse? Sta preparando la descrizione dei fedeli come quelli che, sulle labbra hanno le preghiere in mano la spada per combattere. Potremmo leggera come un’immagine quasi di terrorismo religioso: sono quelli che si armano dicendo le preghiere…

L’immagine richiama il senso dei salmi: le lodi di Dio sulla loro bocca sono i salmi; sono tutte queste preghiere che sono raccolte nel libro le quali sono come una spada a due tagli.

Che cosa viene paragonato alla spada affilata? La Parola di Dio: la parola di Dio è come una spada penetrante, tagliente. Le lodi di Dio sono la tua arma. Qui si sta parlando del combattimento spirituale; i kassidim combattono la bella battaglia, ma non con le armi: con i salmi. Combattono contro una società cattiva, un mondo corrotto, dei potenti, nemici e avversari.

Le lodi di Dio sulla loro bocca costituiscono la spada affilata con cui loro compiono la rivendicazione dei diritto. Il concetto di “vendetta” significa sempre la rivendicazione del diritto: riportare la giustizia.

Nel sl. 2 chi combatteva? Il Messia; lui dominava i popoli; quelli dicevano:  spezziamo le catene, buttiamo via i legami, non se ne parla nemmeno.

Chi compie l’opera messianica? I kassidim, gli anawin, i deboli, i fedeli umili e mansueti; loro, con le preghiere, compiono la giustizia fra i popoli, ristabiliscono la giustizia e puniscono. Stringono in catene i capi. Il Salterio che l’ha con chi comanda; i capi bisogna metterli in prigione, ma per metterli dentro, bisogna dire i salmi; i salmi nella loro bocca sono lo strumento per mettere in catene i capi della terra e i nobili in ceppi di ferro; nelle prigioni segrete e bloccate i piedi, ma non combattendo fisicamente: pregando!

Vedete che spiritualità c’è dietro il Salterio: la preghiera di questi umili, mansueti è una preghiera di combattimento per ristabilire la giustizia: per ristabilire il giudizio già scritto. Qual è il giudizio già scritto? Quello del sl.2: ecco il decreto: il Figlio di Dio ha il decreto Chiedi a me, ti darò in possesso tutte le genti. È stato scritto quel decreto; è stato affidato al Re Messia. I suoi fedeli combattono dalla sua parte.

Da che parte state? Seguite i re della terra o seguite il povero cristo (Cristo)? Con chi combattete? Attenzione perché il Signore conosce la via degli uni e degli altri, ma una porta alla felicità, l’altra va in rovina.

Qual è la gloria dei suoi kassidim? Compiere il progetto di Dio. Che si realizzi il progetto di Dio.

 

L’ultimo salmo, 150, è una grande dossologia: un ripetuto “Alleluia”.

1 Alleluia (alleluya).

(allelu)Lodate Dio nel suo santuario,

(allelu)lodatelo nel suo maestoso firmamento.

(allelu)2 Lodatelo per le sue imprese,

(allelu)lodatelo per la sua immensa grandezza.

(allelu)3 Lodatelo con il suono del corno,

(allelu)lodatelo con l'arpa e la cetra.

(allelu)4 Lodatelo con tamburelli e danze,

(allelu)lodatelo sulle corde e con i flauti.

(allelu)5 Lodatelo con cimbali sonori,

(allelu)lodatelo con cimbali squillanti.

6 Ogni vivente dia lode al Signore.

Alleluia. (AlleluYa)

Perché 10 “allelu”? C’è il riferimento al primo capitolo di Genesi “Dio disse”: 10 parole di Dio creano il mondo. 10 parole sono i comandamenti, 10 alleluYa chiudono il salterio.

Alla parola di Dio che si rivela, per 10 volte, si rinnova la lode: nel santuario, nel firmamento; si adoperano le parole della Genesi. I prodigi, la grandezza, poi l’orchestra del tempio con tutti gli strumenti: trombe (a fiato) arpe, cetra (corde), timpani, cembali(percussioni); sono i tre tipi di strumenti con alcune varietà; come dire: tutte le varie sfumature di persone, di situazioni; tutta la festa del cosmo e dell’umanità suoni questa meraviglia della lode.

L’ultimo versetto è ammirabile Omnes spiritus laudet Dominum.

È ciò che caratterizza l’essere umano: la coscienza, la consapevolezza di sé; ogni spirito, ogni essere vivente, ogni essere che è consapevole di esserci, lodi.

Chi ha coscienza, lodi il Signore; comunque, dovunque, per sempre, per tutto. AlleluYa.

 

Questo è il “giusto”: Beato chi trova il proprio piacere nella Torah del Signore:  chi ha la coscienza di lodarlo; e lo può lodare se è uno dei kassidim e degli anawin: fedele e umile = dalla parte del RE Messia

SALMO 50

Il Miserere

Il Salmo 50 (o 51 secondo l'enumerazione ebraica) è di una ricchezza inesauribile.
Esso attraversa tutta la storia della Chiesa e della spiritualità: costituisce lo schema interiore delle Confessioni di Agostino.

È soprattutto il salmo che ha accompagnato le preghiere, le lacrime, le sofferenze di tanti uomini e di tante donne che vi hanno trovato conforto e chiarezza nei momenti oscuri e pesanti della loro vita.
Il Miserere è la preghiera dell'uomo di sempre, appartiene alla storia dell'umanità. Meditandolo noi entriamo nel cuore dell'uomo e nel cuore della storia dell'umanità.

1 L'iniziativa divina

I primi versetti del Salmo 50 ci introducono con queste parole:

Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nel tuo grande amore cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.

Il punto di partenza del cammino di conversione del cuore è l'iniziativa divina di misericordia: Dio è sempre il primo a dare la mano, il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della sua bontà.
Il peccato è uno sbaglio fondamentale dell'uomo, una disarmonia, una ribellione, una volontà di progetto alternativo e contrastante il progetto di Dio.
Alle parole che indicano lo sbandamento dell'uomo fanno riscontro tre appellativi divini: «Pietà... misericordia... amore ». C'è il peccato dell'uomo, pur se declinato con termini diversi, e ci sono tre attributi di Dio. Questa sproporzione indica che l'insistenza non è sull'uomo peccatore, sulla povertà di ciò che noi siamo, ma è sull'infinità di Dio.
Dio è dono gratuito, è l'essenza della gratuità.

La seconda parola è « misericordia ». Indica, infatti, l'atteggiamento tipico di Dio verso il suo popolo, che comporta lealtà, affidabilità, fedeltà, bontà, tenerezza, costanza nell'attenzione e nell’amore.
Si potrebbe anche tradurre con «gentilezza», nel senso di tenerezza, che non si smentisce, che non svanisce mai.
Dio è colui che io non conosco, ma per il quale sono importante, per il quale è importante - secondo la parola di Gesù - ogni capello del mio capo. Nulla avviene in me senza un'attenzione della tenerezza di Dio.
La terza parola è «nel tuo grande amore ». È un vocabolo profondamente materno e indica la capacità di portare qualcuno dentro, di immedesimarsi in una situazione così da viverla nella propria carne, da soffrirne o goderne come di cosa propria.
È un vocabolo profondamente materno e indica la capacità di portare qualcuno dentro, di immedesimarsi in una situazione così da viverla nella propria carne, da soffrirne o goderne come di cosa propria.

2 Il riconoscimento della situazione

Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto.

Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e ,nell'intimo m'insegni la sapienza.

Le parole dei primi versetti del Salmo, su cui ci siamo soffermati, ci introducono nella sezione centrale di questo Salmo che si può, utilmente, dividere in tre parti.

La prima parte è il riconoscimento di una situazione. I verbi sono tutti all'indicativo ed espongono, sottolineano dei fatti: riconosco la mia colpa, contro di te ho peccato, sei giusto quando parli, mi insegni la sapienza.

La seconda parte esprime la supplica. Il brano cambia di tono e quasi tutti i verbi sono all'imperativo: purificami, lavami, fammi sentire gioia, distogli lo sguardo, cancella, crea in me, non respingermi, non privarmi, rendimi la gioia, sostieni in me.

La terza parte è il progetto per l'avvenire. I verbi sono al futuro: insegnerò, la mia lingua esalterà.

Con termini a noi più abituali possiamo chiamare: esame di coscienza il riconoscimento della situazione; richiesta di perdono la supplica; proposito il progetto per l'avvenire.

C'è quindi l'io che riconosce, c'è una determinazione generale della situazione di colpa, c'è il Tu con cui termina questa prima parte e che è il punto focale: Tu vuoi la sincerità del cuore, Tu, nell'animo mi insegni la sapienza.

Ecco la chiave della prima parte del Salmo: Dio, nella sua iniziativa di amore e di misericordia, proietta nell'oscurità della mia anima, nel profondo della coscienza, la luce del suo progetto. Così facendo mi porta a scoprire la verità di me stesso, mi dà respiro, mi aiuta a cogliermi rispetto a ciò che sono chiamato ad essere, a ciò che avrei dovuto essere, a ciò che posso essere con la sua grazia.
Non viene, infatti, detto: ho peccato, ho sbagliato. Viene detto: «Contro di te ho peccato ». Le parole del Salmo ci rivelano la differenza tra l'esame di coscienza fatto in dialogo con Dio e tutta l'analisi della colpa, delle debolezze, delle bassezze che ciascuno riconosce in se stesso e che arrivano a deprimere profondamente lo spirito rendendolo ancora più stanco e incapace di lottare.
In questo Salmo
, scritto più di duemila anni fa, noi cogliamo l'uomo che ha trovato la via giusta per il pentimento, la via del riconoscimento di colpe gravissime ma espresso davanti a Colui che cambia il cuore dell'uomo.

 

 

3 Il dolore dei peccati

Sei giusto quando parli,
retto nel tuo giudizio.
 

Che cosa vuol dire concretamente: «Sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio?». Noi interpretiamo spontaneamente questo versetto mettendo Dio al posto di un giudice; vediamo idealmente due parti convenute in giudizio e Dio nel mezzo.
Le due parti sono, nel caso del riferimento storico del Salmo, Davide e Uria, il marito di Betsabea ucciso proditoriamente per ordine di Davide. Dio sta nel mezzo come giudice imparziale che dà torto a Davide e lo condanna. Il re accetta la condanna e allora dice a Dio: Tu sei retto quando giudichi.
Questa interpretazione non è cogente. Essa pone Dio come arbitro che condanna il peccatore alla morte, senza possibilità di appello.
La realtà vissuta dal Salmo è molto più profonda. Dio non è giudice: è parte lesa. Egli, che è il principio di ogni fedeltà e di ogni amore, è stato leso mortalmente da Davide, è stato violentato nei suoi diritti. Per questo rimprovera Davide e questi accetta il rimprovero sapendo che il giudizio divino è giusto ed è quindi anche un giudizio di perdono.
Dio, come parte offesa, redarguisce Davide perché vuole la sua vita e non la sua morte: se ha tentato di uccidere Dio, Dio lo vuole salvare.
È propriamente a questo punto che scatta il pentimento biblico, il dolore dell'uomo: l'uomo si trova davanti a Colui che ha leso, di cui ha respinto la fiducia e che di nuovo gli offre la mano destra della sua fiducia.
Ci risponderà ancora il Vangelo di Matteo, nella scena del giudizio universale, dove Gesù si costituisce parte lesa ovunque un affamato non è nutrito e un carcerato non è visitato: «In verità vi dico... non l'avete fatto a me » (cfr. Mt. 25, 31-46).

4 La supplica

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.

Non respingermi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.

Rendimi la gioia di essere salvato,
sostieni in me un animo generoso.

Cominciamo da una particolarità linguistica che non appare nella versione italiana: siamo di fronte a tre invocazioni di richiesta dello Spirito Santo; da parte dell'uomo. La supplica domanda lo spirito saldo, lo Spirito santo, lo spirito generoso ed è una vera e propria epiclesi.
L'epiclesi liturgica è la preghiera che nella celebrazione eucaristica si fa, al momento della consacrazione, allo Spirito Santo perché scenda in maniera creativa sul pane e sul vino, rendendoli Corpo e Sangue di Cristo.
Qui siamo di fronte ad una epiclesi penitenziale, ad una invocazione dello Spirito perché scenda sulla persona che prega e la trasformi. È quindi il momento culminante del Salmo, come la Consacrazione è il momento culminante dell'Eucaristia.

«Crea in me, o Dio, un cuore puro» è all'inizio dell'epiclesi dello Spirito e l'altra: «Rendimi la gioia di essere salvato» è nel contesto dell'epiclesi stessa. Qual è la domanda fondamentale? Crea in me.
La domanda è quindi di un’azione creatrice, di una novità che Dio solo può porre nell'uomo.
E la parola « crea in me » è parallela con l'altra: « rendimi la gioia ». Non si chiede qualcosa di assolutamente nuovo ma si chiede di far ritornare quel momento creativo originario che è il Battesimo.
Il Sacramento della Riconciliazione è la richiesta di essere reimmersi nella forza creativa dello Spirito battesimale, è una nuova esperienza del Battesimo, che per nostra colpa abbiamo perduta.
Per questo il Sacramento della Riconciliazione non può avere il suo pieno effetto se non abbiamo vissuto profondamente l'esperienza dell'annuncio evangelico, la forza del kerygma.
Come si può restituire ciò che non c'è mai stato o che c'è stato in maniera fiacca, slavata e generica?
Qual è l'oggetto dell'atto creativo e restitutivo che si chiede a Dio di compiere? È un cuore puro, è la gioia.
La gioia è l'esperienza fondamentale che dovremmo recepire in noi. Eppure, tante volte, ripensando alla nostra esperienza cristiana, dobbiamo leggerla come esperienza che si trascina stancamente.

Lo spazio alla gioia è il momento della preghiera, dell'adorazione, del silenzio, del canto, del dialogo sul Vangelo; è il momento del sacrificio, del dono di sé, della rinuncia; è il momento del canto interiore. In questi momenti la gioia, che non è nostra bensì dono gratuito di Dio, scoppia dentro di noi fino a sorprenderci.
« Crea in me, o Dio, un cuore puro... rendimi la gioia di essere salvato.. » È la gioia della salvezza di Dio che mi accoglie, mi ama e mi salva.

 

5 La confessione dei peccati

Quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto.

Il tema è molto importante per il nostro cammino di riconciliazione. D'altra parte l'accusa dei peccati che il penitente è chiamato a fare di fronte alla Chiesa suscita sempre un senso di disagio e pone diverse domande. Cerchiamo innanzitutto di specificare il disagio e le domande.

Il disagio per il contenuto dell'accusa. Si crea non di rado, in noi, un impaccio perché non sappiamo cosa dire, ci pare di non avere niente da dire. Ci rivolgiamo allora al sacerdote dicendo: «Mi aiuti lei, io non ricordo, non so che cosa dire ».
Il disagio che nasce dalla forma, dall'atmosfera che assume la confessione. Facilmente diventa un'autoaccusa: Ho commesso questo, ho fatto quest'altro, sono colpevole della tal cosa.
In un quadro più psicologico, l'accusa sfocia in un'autocritica che rischia di scivolare verso l'autogiustificazione. Mi sono, cioè, autocriticato così bene da essere riuscito a chiarirmi a me stesso e praticamente non ho più bisogno del perdono di Dio: il perdono diventa accessorio, aggiuntivo e di fatto così si rinnega il Vangelo del perdono.

La prima cosa che notiamo in queste parole è che siamo di fronte ad un movimento dialogico. Qui non c'è autocritica: ho fatto male, ho fatto ciò che non dovevo, ho sbagliato.
Siamo piuttosto in un dialogo intimo e personale: ho fatto ciò che ai tuoi occhi è male. Non ho fatto male soltanto contro la tua legge ma quello che è male «ai tuoi occhi».

L'ambito non è di un solipsismo accusatorio, di un autolesionismo chiuso in se stesso: l'ambito è di un dialogo filiale con Colui che mi ama.

L'esame di coscienza - ora possiamo coglierlo meglio - è il mettersi di fronte alla Parola di Dio non come quadro etico di riferimento, ma come Parola che interpella, che rimprovera con quella forza d'amore che le è propria per fare emergere la scintilla della salvezza e la possibilità del perdono. La confessione e la lode si alternano: l'atmosfera è quella della «confessio laudis» e della «confessio vitae», della confessione di lode e della confessione della vita, non quella dell'autolesionismo e dell'amarezza.
Il confessarsi nella lode era talmente abituale agli Ebrei che persino il fariseo della parabola evangelica fa la sua confessione partendo dalla lode: « Ti ringrazio, mio Dio, perché non sono come gli altri uomini» (Lc 18, 9-14).
L'errore del fariseo, che pure inizia con ringraziare, sta nel congiungere la «confessio laudis » con la « confessio vitae » e nel non mettere davanti alla misericordia e alla bontà di Dio la sua povertà, quella povertà che invece riconosce il pubblicano, con semplicità e coraggio: «Dio, abbi pietà di me peccatore! », che vuol dire: Tu sei grande, misericordioso, potente e io sono povero. Tu mi salvi e io ti lodo per la tua grande potenza. Ecco dunque l'atmosfera, il tono, il ritmo che dovrebbe avere la nostra confessione: l'atmosfera del ringraziamento.

 

6 La penitenza

Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l'olocausto e l'intera oblazione,

Quando io, come ministro del Sacramento, quindi come confessore, penso alla «penitenza», sento certamente emergere qualche disagio: è forse uno dei momenti che maggiormente mettono in difficoltà il sacerdote.
Egli, infatti, si domanda: Quale penitenza è veramente adeguata al cammino di questa persona che ho davanti?

Tenendo ora presente la difficoltà che la «penitenza» pone al sacerdote che amministra il Sacramento, vi invito a meditare il brano evangelico che parla di Zaccheo (Lc 19, 1-10).
a) L'azione interna che Zaccheo compie è il suo desiderio di vedere Gesù. 

  1. b) L'azione esterna che compie Zaccheo è quella di mettersi a correre e di salire su un albero. 
  2. c)L'azione esterna è che Zaccheo accoglie Gesù, pieno di gioia.
  3. bL'azione interna è che Zaccheo decide e comunica di voler dare ai poveri la metà di quello che ha e di riparare i torti in misura straordinaria. La parola di Zaccheo: «Signore, do la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» è la risultanza penitenziale, sociale, civile, comunitaria del cammino di Zaccheo. È il frutto di «penitenza» della sua riconciliazione.

Il primo frutto dell'incontro penitenziale è dunque la gioia, una gioia che deborda, trabocca intorno a noi e che ci fa compiere con facilità azioni anche difficili a cui non ci saremmo mai decisi prima di aver ascoltato la parola di Gesù.

La seconda sottolineatura del cammino di Zaccheo è che lui stesso propone a Gesù la «penitenza» che vuoi fare e Gesù l'approva. Zaccheo propone ciò che è più adatto per un uomo avido, imbroglione, desideroso di possedere come è lui.
Possiamo ritornare alla nostra domanda iniziale: Quale penitenza adeguata al cammino di chi ho davanti posso dare come sacerdote che amministra il Sacramento della Riconciliazione? Come posso aiutare a fare frutti degni di penitenza? La risposta suggeritaci dal brano evangelico è molto semplice. Forse è il penitente che può aiutare me confessore, forse è colui che ha instaurato con me un dialogo penitenziale che può suggerirmi come aiutarlo a fare frutti degni di penitenza.

 

7 Testimoniare la misericordia

Insegnerò agli erranti le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.
...la mia lingua esalterà la tua giustizia.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.

La necessità di essere testimoni della misericordia divina, di vivere la missione della misericordia. Colui che ha percorso il cammino della penitenza sente questa missione come momento conclusivo di ciò che ha fatto e che ha vissuto.

Il salmista esprime il suo impegno missionario in una maniera precisa, che corrisponde all'itinerario da lui percorso: farò capire a chi è senza strada che una strada c'è, anzi che tu, o Signore, gli stai venendo incontro. Lo farò capire non come uno che fa una lezione o una esortazione ma come testimone di ciò che è avvenuto a me.
Ecco allora la forza di questa testimonianza: chi ha percorso un genuino cammino penitenziale, può aiutare altri a capire che c'è una via d'uscita in cui Dio stesso viene incontro, in Gesù, come è venuto incontro a me.

Possiamo subito domandarci: com'è la mia testimonianza? Il Vangelo secondo Giovanni, al c. 4, ci presenta un altro esempio di una bocca che si apre alla testimonianza convinta e convincente: la donna samaritana.

Confrontiamoci con l’esperienza della donna samaritana per scoprire la bellezza e la forza della testimonianza e della gioia della vita nuova.

 

Cfr Martini Carlo Maria, salmo miserere

 

1.L’INTERPRETAZIONE CRISTIANA DEI SALMI

 

 

E’ un testo dell’A.T. con una ricchezza spirituale che lo fa valere come un libro del N.T.. È la preghiera di Cristo e della Chiesa.

Il libro dei Salmi contiene una ricchezza teologica eccezionale e una bellezza, anche poetica, che non ha pari.

Trovando tante altre preghiere, moderne, recenti, ci si accorge di come stanchino presto: dopo che si sono ripetute due, tre, quattro volte, non se ne può più.

Questi sono testi per una vita e più si studiano, più piacciono e si gustano sempre meglio.

I’intento sarà quello di imparare a gustare sempre di più i salmi.

Immagino che molti di voi siano già abituati, almeno in parte, a pregare con i salmi; se non altro, nella liturgia; la liturgia della Parola prevede sempre il salmo. Non diamo gran peso al salmo responsoriale della Messa: è rarissimo sentire una predica sul salmo responsoriale.

Invece, a tutti gli effetti, è liturgia della Parola: è testo biblico che merita di essere ascoltato e commentato; diventa un’occasione per approfondire le altre letture, anzi è lo strumento ideale per assimilare il messaggio delle altre letture e trasformarlo in preghiera.

La preghiera delle lodi e dei vespri è sostanzialmente basata sui salmi. Fin dall’antichità la Chiesa ha proposto ai fedeli di pregare con i salmi.

Il libro che contiene i salmi si chiama Salterio; è un libro biblico: fa parte dell’A. T. nella raccolta dei “libri sapienziali”; è un testo che non viene letto direttamente, nella liturgia della parola – non avete mai sentito:” Dal libro dei salmi” -, ma vengono sempre attinti dei testi in aggiunta, o per la preghiera fondamentale della Chiesa, al mattino, alla sera; lungo la giornata. I monaci hanno sempre strutturato la propria preghiera utilizzando i salmi.

Quando, intorno al 1200, hanno inventato il rosario, hanno pensato di strutturarlo in 150 “Ave Maria...” perché i salmi sono 150, quindi il rosario è stato pensato come “Il Salterio degli analfabeti”. Chi non è in grado di leggere i salmi, al posto di ogni salmo, dica una “Ave Maria…”. Il modello, quindi, è il Salterio: la preghiera per eccellenza è il libro dei Salmi, che era utilizzato nella storia dell’antico popolo di Israele; è stato utilizzato da Gesù ed è stato adoperato dagli Apostoli e trasmesso alle nuove generazioni cristiane; con questo testo, abbiamo la possibilità di fare nostra la preghiera tradizionale della Chiesa e del popolo di Israele. È necessario, sempre di più, imparare a conoscere questi testi per poterli usare, veramente, come preghiera.

Ci sono delle difficoltà nei Salmi perché sono testi antichi e, in alcuni casi, contengono delle espressioni strane con immagini che non comprendiamo e forse con sfumature che, in qualche modo, non ci piacciono.

Partite però sempre da quest’idea: quando c’è qualcosa che non capite o che non vi piace, la colpa non è del testo, ma della vostra testa; siate umili, non rifiutate il testo biblico perché non vi piace, perché, ad esempio, vi sembra violento; non illudetevi di essere più buoni di Dio: non lo siete!

Se vi sembra che quel testo non vada bene è perché non l’avete capito, allora cercate di capirlo. La ricerca della comprensione del senso di un testo è preghiera, un’ottima strada di preghiera: cercare di capire il significato.

Se siete abituati, per esempio, a fare un po’ di meditazione sulle letture domenicali – e sarebbe una cosa ben fatta -, sulla domenica precedente perché avrete tutta la settimana per pensare alle letture che sono state proclamate domenica scorsa; se ritornate sulle letture, ritornate anche sul salmo e domandatevi: “Perché c’era questo salmo?”; potrebbe essere una bella abitudine portare nella preghiera della settimana il salmo responsoriale della domenica. A Messa senti proclamare un salmo, poi, o prendi il foglietto, o hai il messalino, o ti guardi il numero e te lo vai a cercare sulla Bibbia e, durante la settimana, ritorni su quel salmo, uno solo, e insisti, lo leggi e lo rileggi, tutti i giorni, cercando di comprenderlo, cercando di farlo diventare preghiera.

La strada migliore per comprendere i salmi è quella di applicarli a Cristo.

I salmi devono essere interpretati in modo cristologico.

I salmi sono profetici (partiamo da quest’idea di fondo); i salmi, tutti, parlano di Cristo. I salmi sono Parola di Cristo: parlano di lui ed è lui che parla.

Sono testi antichi che hanno avuto una loro storia, una loro vicenda però, proprio perché sono Parola di Dio ed hanno una ricchezza che è uno spessore teologico notevole, questi testi anticipano la mentalità di Gesù: annunciano quello che farà e dirà Gesù. Nei salmi si ritrova la mentalità stessa di Gesù.

In Colombia, avevo l’edizione del N.T. con il libro dei salmi; in fondo possiamo considerare i salmi parte del N.T.. e quindi parte della nostra vita.

Un altro particolare interessante: nel tempo di Pasqua non si legge mai l’A.T., né nella Messa, né nell’ufficio; sempre e solo Nuovo Testamento. E i salmi? In tutto il tempo di Pasqua il salmo responsoriale c’è, ma i salmi sono considerati, a tutti gli effetti, opera neotestamentaria: hanno la valenza di vangelo. È questo il lavoro che dobbiamo imparare a fare: non semplicemente vedere la poesia che poteva esserci in questi testi, ma riconoscere il messaggio cristologico.

 

Per sintetizzare il metodo di lettura, in generale, dobbiamo dire che i salmi hanno quattro significati, quindi dovrebbero essere letti in quattro modi diversi.

  • Il primo modo e quello letterale: il senso storico della poesia, composta nella storia dell’antico popolo di Israele. Si dice che molti salmi siano di Davide, certamente non tutti, qualcuno sì, quindi risale al 1000 a.C.. Molti altri sono posteriori a Davide, altri sono tardivi. Quindi, in quella raccolta, ci sono testi nati nell’arco di 800 anni, con tante differenze, con situazioni, mentalità, tematiche diverse. La prima fase è una lettura letterale/storica del testo per capire che cosa dice, a che cosa fa riferimento, quali sono le immagini, i significati. E’ solo il primo punto di partenza preliminare.
  • Il secondo passaggio è quello cristologico: i salmi parlano di Gesù, parlano del Messia quindi il secondo livello è quello dell’applicazione a Gesù. Si tratta di riconoscere i riferimenti a Gesù, l’applicazione a lui e, solo partendo da quest’applicazione a Gesù Cristo, possiamo andare avanti perché…
  • Il terzo significato è quello ecclesiale: i salmi parlano della Chiesa, ma la chiesa è il corpo di Cristo, quindi, una volta che il salmo è applicato a Gesù, per estensione, lo applichiamo a tutti coloro che sono stati innestati in Gesù e fanno parte del suo “corpo mistico” che è la Chiesa; vale per lui, vale per tutti noi.
  • Arriviamo finalmente al quarto modo che è quello personale: l’applicazione che riguarda me personalmente perché io faccio parte della Chiesa e, in quanto parte della Chiesa e membro del corpo di Cristo, quello che vale per lui, vale per me. Allora, quando recito un salmo, lo recito come parte della Chiesa, non come individuo isolato, ma come membro del corpo vivo di Cristo e impersono Cristo; quando leggo il testo e lo leggo con partecipazione personale intensa; non semplicemente perché lo leggo un po’ veloce e distrattamente, ma perché mi immedesimo nel testo, io sto parlando come Cristo: sto dando la voce a Cristo. Questo è un elemento importante! Ai preti, la Chiesa ha sempre chiesto anzitutto la preghiera del Salterio, come impegno giornaliero e fondamentale; non abbiamo l’obbligo di celebrare la Messa nei giorni feriali, ma abbiamo l’obbligo di recitare il breviario come un elemento fondamentale e indispensabile della nostra vita di consacrati. Perché questo? Perché è la preghiera di Cristo! Non è la mia preghiera personale, la mia devozione, ma è il mio partecipare alla preghiera di Cristo e della Chiesa, attraverso questo strumento fondamentale che è il Salterio.

È importante tenere presente che non è semplicemente un discorso teorico: è una realtà estremamente concreta e personale.

Una realtà molto importante è che il Libro del Salterio è stato organizzato e composto da una comunità credente. Questo è un elemento nuovo che è stato messo in evidenza solo recentemente, quindi, è un dato molto importante su cui desidero insistere particolarmente.

Il libro dei Salmi è pensato in modo organico ed intelligente; il Libro dei Salmi ha una sua logica ed una sua struttura, quindi sarebbe raccomandabile una lettura continuata del Salterio, cominciando dal primo salmo fino al 150 perché sono organizzati con un criterio ed è importante che siano in un certo ordine: un salmo, letto dopo l’altro, acquista significato (faremo la prova in alcuni casi). Avete presente il Sl. Dio mio, Dio mio, perché mi ha abbandonato? Qual è quello che viene dopo? Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. (Sl 21-22). Non è un caso! E il Sl.20, che viene prima, è il salmo della vittoria del Re messia. La vittoria del Re messia, il Re pastore, che non mi fa mancare nulla e, in mezzo, il lamento della morte di Cristo. Mica casuale! Ma per capire bene il Sl. 21, devo capire che viene dopo il 20 e prima del 22. È banale, ma tenendo conto di tutto, posso fare un percorso spirituale.

Chi ha messo insieme la raccolta dei salmi? Una comunità credente: un gruppo di persone impegnate e attive spiritualmente. Tecnicamente si chiamano kassidim. Forse ne avete sentito parlare, ma come pensatori moderni. Marthin Buber ha scritto un libro dei racconti dei kassidim perché è un termine tecnico dell’ebraismo per indicare i devoti, le persone pie, i fedeli. Il termine kassidim è un termine antico, biblico ed indica proprio i fedeli. Molti salmi parlano della grande assemblea o dell’assemblea dei fedeli.

L’assemblea dei fedeli e la congregazione di quelle persone; era un autentico ordine religioso. Si chiamavano anche anawim, i poveri del Signore. Era un gruppo di forte spiritualità, in un’epoca tardiva (3°/2° sec. a. C.), in un’epoca in cui a Gerusalemme le autorità, i potenti, quelli che avevano in mano il potere politico sociale, economico e religioso, stavano avvicinandosi, sempre di più, alla mentalità del mondo (greco): del mondo secolarizzato.

Questi kassidim, invece, si consideravano emarginati, e forse lo erano; si consideravano poveri di spirito, deboli (socialmente lo erano): non avevano un influsso sociale, politico ed economica, ma ritenevano di avere una grande forza: la presenza del Signore in mezzo a loro. Si tratta di un autentico movimento spirituale che ha composto il libro dei salmi come “manuale di formazione”: è un testo di “formazione della mentalità” per entrare nello spirito dei fedeli, per far parte dell’assemblea dei fedeli. Il latino traduce “assemblea dei fedeli” con “ecclesia santorum”. Volete far parte della Chiesa dei santi? Abbiate la mentalità delle costituzioni.

Il salterio è stato pensato da qualcuno, prima di Gesù, ed è stato accolto da Gesù e dai suoi discepoli, come “le costituzioni della Chiesa”: il documento costitutivo della mentalità di questa assemblea dei fedeli.

Gesù appartiene a questo gruppo dei assidi, ma già Maria e Giuseppe ne fanno parte, come Zaccaria ed Elisabetta, Simeone ed Anna, Giovanni Battista; sono persone che entrano in questa comunità e respirano questa mentalità.

Ora, una delle idee cardine di questo movimento è l’attesa del Messia; non c’è messianismo più forte, in tutti i libri dell’A.T., che nel salterio. I salmi sono i testi più messianici che ci siano perché sono proprio l’espressione di questa comunità che desiderava ardentemente la venuta del Messia. Erano loro che attendevano il Messia, ma lo attendevano come un povero.

Quindi (permettetemi la frase): il salterio è il testo di teologia del “povero cristo”; è proprio la formulazione teologica del povero cristo. E non lo sei anche tu un povero cristo?

E la Chiesa non è così? E Gesù di Nazareth non è così? Certo che è così! È un’espressione che noi mettiamo fra virgolette, ma guardate che è una bellissima espressione. A parte la commozione natalizia del Gesù povero, ricominciate a contemplarlo nella nascita, come un povero cristo. E poi nella morte! Di nuovo un povero Cristo!

La Chiesa, corpo di Cristo, può essere diversamente? Se non è così, non è il corpo di Cristo!

Io, personalmente, se non sono così, non appartengo alla Ecclesia santorum: non faccio parte di questo gruppo, di questo movimento; non sono inserito in questa persona.

 

Ci sono anche problemi di numero: i sl. hanno creato problemi anche per questo perché, nella numerazione del testo ebraico c’è differenza rispetto al testo greco perché il Sl. 9 è stato diviso, in ebraico, quindi la numerazione ebraica ha un numero in più, dal nove in poi; i primi otto salmi sono tutti uguali. Dal Sl.9 in poi, hanno due numeri. In genere, nelle Bibbie, trovate un numero fuori parentesi e un numero dentro la parentesi. Personalmente avrei scelto una delle due numerazioni perché è indifferente; sono convinto che sia più giusta quella greca che si adopera nel breviario e nella liturgia della Messa. Preferisco utilizzare quella greca che è quella più bassa, di solito fra parentesi, ma ogni edizione fa un po’ quello che vuole.

Avete visto come termina il sal. 41(40)? Sia benedetto il Signore, Dio di Israele, da sempre e per sempre. Amen, amen.

Cosa vuol dire? Vuol dire che finisce qualcosa: finiscono i salmi di Davide, infatti, il salmo successivo è intitolato:  Al maestro del coro: Maskil. Dei figli di Core. Non è più di Davide: cambia.

 

I libri dei salmi sono cinque. Il salterio è fatto di cinque libri, come il Pentateuco, come la Torah. Chi ha messo insieme il salterio l’ha organizzato come “Il Pentateuco della preghiere”: sono cinque libri; di fatti ci sono cinque chiusure con l’Amen.

Il giudaismo ha voluto organizza­re la collezione in un `pentateuco', segnato da dossologie finali (41,14; 72,19; 89,52; 106,48; 150,6):

I libro: Sal 1-41.

II libro: Sal 42-72.

III libro: Sal 73-89.

IV libro: Sal 90-106.

V libro: Sal 107-150.

Accanto al Pentateuco storico delle azioni salvifiche di Dio - la Torah - si giustapponeva il 'pentateuco' orante del Salterio, risposta benedicente e benedetta dell'uomo al Dio liberatore. Tuttavia la fenome­nologia del Salterio è più complessa e suppone un ampio processo geneti­co e redazionale.

 

Nell'attuale redazione della collezione del Salterio riconosciamo:

Sal 1-41               salmi-io; salmi-Jhwh; salmi-Davide

Sal 42-49    salterio dei figli di Core

Sal 50; 73-83        salterio di Asaf

Sal 84-89    secondo salterio Jhwh

Sal 93; 96-100      salmi del regno di Jhwh

Sal 113-118 Hallel pasquale

Sal 135-136 Grande Hallel

Sal 146-150 Piccolo Hallel

Sal 120-134 salmi delle ascensioni

 

E' ormai tradizione identificare, all'interno della grande tavola a colori della preghiera salmica, alcune aree letterarie abbastanza circoscritte, alcune famiglie di preghiere. Si tratta dei famosi generi letterari, la cui migliore codificazione è dovuta all'esegeta tedesco H. Gunkel con la sua classica opera Die Psalmen (Gottinga 1926); distinguiamo:

 

  • l'Inno che "risponde al bisogno più profondo e più nobile di ogni religione che è quello di adorare nella polvere chi è sopra di noi". Modellato sulle due radici fondamentali, Creazione e Rivelazione, l'inno presenta contenuti specifici come avviene ad esempio negli Inni di Sion che hanno al centro la città santa luogo della presenza di Dio (Sal 46; 48; 76; 84; 87; 122; etc.) o negli Inni a Jhwh, acclamazioni al Dio Re (Sal 93; 96; 97; 99; etc.);
  • la Supplica che è perlopiù strutturata in dramma a 3 personaggi (Dio, l'orante, il nemico), in 3 atti distribuiti nel tempo (la felicità perduta del passato, il tragico presente, la speranza nel futuro) (Sal 6; 13; 35; 42; 90; etc.);
  • la Fiducia che è momento di totale abbandono nel Dio in cui si crede, è "sperare contro ogni speranza" (Rm 4,18). (Sal 23; 71; 121;);
  • il Ringraziamento, personale (Sal 30; 41; 116 etc.) o comunitario (Sal 124; 129; etc.) che in un clima di pace, gioia, speranza, rende lode a Dio per il suo intervento liberatorio;
  • la Liturgia, contesto vitale in cui il salmo viene creato e poi ripresentato (Sal 120-134; etc:);
  • la Sapienza, tematica di fondo di una serie di salmi quali 127, 133, etc.;
  • i salmi storici e regali (Sal 2; 20; 114; 135; etc.).

         I salmi sono soprattutto un'implicita riflessione sull'incontro con Dio; i due poli del dialogo, l'uomo e Dio, sono presentati nella loro relazione e anche in sé; tra i due emerge spesso il male-nemico che mette in crisi il rapporto tra i due; segni teologicamente più elevati di questa crisi sono il silenzio di Dio e il peccato dell'uomo.

         Attorno al centro costituito da Dio e dall'uomo si articola tutta la realtà in una serie di cerchi concentrici:

  1. la città santa, che accoglie nel suo grembo la presenza di Dio nel Tempio, e del re, figlio di Davide e di Dio (Tempio=dimensione spaziale; Dinastia= dimensione temporale);
  2. il popolo eletto, scelto da Dio per realizzare il suo progetto di salvezza;
  3. la creazione segno della trascendente regalità di Dio.

 

Cfr. Prof. DOGLIO Don Claudio, pregare con i salmi

Cfr P. Danilo Scomparin, Corso sui salmi

 

La catechesi è stata tenuta da Padre Gianfranco Zintu dei Missionari della Consolata

nella parrocchia di Nostra Signora de La Salette il 28 febbraio alle ore 18,30.

Il Vangelo in tasca

Mercoledi 17 marzo 2021

San Vincenzo Ferreri è stato un predicatore straordinario. Niente di strano che lo chiamassero da tante città perché offrisse i suoi preziosi sermoni. In una occasione un nobile lo invitò a predicare. Vincenzo si preparò con tutte le sue risorse di arte oratoria, con la miglior teologia e cercando citazioni di persone e santi famosi.

Il giorno del sermone, Vincenzo Ferrer predicò in modo così brillante, spirituale, profondo e piacevole che gli chiesero il favore di predicare anche il giorno dopo. Vincenzo accettò.

Ma quella notte Vincenzo la passò riflettendo su quello che aveva fatto e si rese conto che nella preparazione della predica e nella predica stessa, aveva cercato la propria vanagloria.

Si inginocchiò e trascorse tutta la notte in preghiera, chiedendo perdono a Dio per il suo peccato.

Il giorno dopo, Vincenzo predicò. Fu meraviglioso. Alla fine, il nobile gli disse: “Vincenzo, ieri sei stato bravissimo, ma oggi sei stato insuperabile, fantastico, molto meglio di ieri”

Vincenzo rispose: “Il fatto è che ieri predicò Vincenzo, oggi predicò Gesù”.

Il Vangelo in tasca non è per cercare una moda nuova o per farci vedere speciali, ma perché Gesù sia in noi.

Paolo gridava:” Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me”. Gal 2,20

Paolo annunciava il Vangelo “affinché Cristo sia formato in voi” Gal 4,19

Il Vangelo in tasca è per crescere e vivere l’amicizia con Gesù. San Girolamo diceva che “l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”.

Sebastiana è una delegata della Parola della comunità di Bocachica in Colombia dove ho lavorato. Insieme a Eustasia e Anita accompagnavano la comunità nel cammino di fede, riunivano una volta alla settimana la comunità per la celebrazione della Parola, seguivano la catechesi, preparavano i genitori che chiedevano di battezzare i figli, facevano i funerali quando non riuscivo ad arrivare in tempo…Sebastiana una donna umile e gioiosa, ma volevo che fosse più protagonista nella celebrazione della eucaristia, per esempio, leggendo una delle letture. Mi diceva che non se la sentiva di leggere in pubblico. Riuscì a convincerla, le dì la lettura perché la preparasse. Quando si celebrò la eucaristia, Sebastiana con calma ma con una buona dizione riuscì a leggere bene la lettura. Alla fine della celebrazione gli feci i complimenti e gli dissi: “Ti sei preparata bene per leggere la Parola di Dio!”. Sebastiana con molto semplicità mi rispose: “Sì, ho cercato di prepararmi per leggere la Parola di Dio, ho cercato di fare digiuno e pregare, perché non è facile proclamare la Parola di Dio”.

È come se avessi ricevuto uno schiaffo, io parlavo di preparazione, di tecnica di lettura, di espressività e lei mi diceva sull’importanza di prestare la propria voce al Signore…

La familiarità con la Parola comporta sempre una intimità con Dio, scoprendoci amati, chiamati e inviati.

Se volessimo riscoprire questo primato della Parola che Papa Francesco ricorda in modo speciale ai sacerdoti e a tutto il Popolo di Dio, dovremmo partire dal Vaticano II. A mio parere 4 sono le grandi rivoluzioni nel Vaticano II:

La prima è proprio la centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa e l’invito a conoscerla, a pregarla e a viverla. La Costituzione Dei Verbum è la pietra miliare, e ci farebbe bene meditarla di nuovo. Nel 2008, dal 5 al 26 ottobre si svolge la Assemblea Generale Ordinaria (sinodo) sulla “Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, a cui seguirà l’Esortazione Apostolica postsinodale, “Verbum Domini”. La seconda la riscoperta della Chiesa come popolo di Dio chiamato alla santità. La terza è ricordare ad ogni battezzato la sua vocazione missionaria, La quarta la affermazione che le gioie, le sofferenze, le speranze, le afflizioni del mondo lo sono anche della Chiesa. Una Chiesa che condivide la vita di ogni uomo e di tutto il mondo.

Ascoltiamo un discorso del Papa Francesco:

Servitori della Parola (Discorso del 5 ottobre 2017)

Siamo servitori della Parola di salvezza che non torna al Signore a vuoto. Lasciarsi quindi “ferire” dalla Parola è indispensabile per esprimere con la bocca ciò che dal cuore sovrabbonda. La Parola di Dio, infatti, «penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12).

Siamo servitori della Parola di vita eterna, e crediamo che non solo di pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (cfr. Mt 4,4). Quindi, con l’aiuto dello Spirito Santo, dobbiamo nutrirci alla mensa della Parola tramite la lettura, l’ascolto, lo studio e la testimonianza di vita. Noi dedichiamo tempo a coloro che amiamo, e qui si tratta di amare Dio, che ci ha voluto parlare e ci offre parole di vita eterna.

Siamo servitori della Parola di riconciliazione, anche tra cristiani, e desideriamo con tutto il cuore che «la parola del Signore corra e sia glorificata» (2Ts 3,1). È giusto quindi aspettarci un nuovo impulso

alla vita spirituale dall’accresciuta venerazione per la Parola di Dio.

Siamo servitori della Parola che è “uscita” da Dio e «si è fatta carne» (Gv 1,14). È vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura (Evangelii gaudium, 23). E lo facciamo in obbedienza al mandato missionario del Signore e con la certezza della sua presenza in mezzo a noi fino alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20).

Siamo servitori della Parola di verità (cfr. Gv 8,32). Siamo convinti che «l’unità voluta da Dio può realizzarsi soltanto nella comune adesione all’integrità del contenuto della fede rivelata. In materia di fede, il compromesso è in contraddizione con Dio che è Verità. Nel Corpo di Cristo, il quale è “via, verità e vita” (Gv 14,6), chi potrebbe ritenere legittima una riconciliazione attuata a prezzo della verità?» (Ut unum sint,18).

Siamo servitori della Parola di Dio potente che illumina, protegge e difende, guarisce e libera. «La parola di Dio non è incatenata!» (2Tm 2,9). Per essa molti dei nostri fratelli e sorelle sono in prigione e molti di più hanno versato il loro sangue come testimonianza della loro fede in Gesù Signore. Camminiamo insieme affinché la parola si diffonda (cfr. At 6,7).

Preghiamo insieme perché «sia fatta la volontà del Padre» Mt 6,10.

Lavoriamo insieme affinché si compia in noi “ciò che il Signore ha detto” (cfr. Lc 1,38).

Nella Enciclica Evangelii Gaudium non appare l’espressione “Vangelo in tasca”, ma in molte occasioni, soprattutto durante l’Angelus domenicale, il Papa non solo ha invitato a portare con sé un vangelo, in tasca ma ha anche donato ai presenti il Vangelo.

Nell’enciclica affronta il tema della predicazione, chissà perché sia un tema estremamente delicato e soprattutto perché molte volte la Santa Messa è l’unico luogo, per il cristiano, dove si proclama e si ascolta la Parola di Dio, quindi una parte della enciclica è rivolta soprattutto ai preti.

 

Consideriamo ora la predicazione all’interno della liturgia, che richiede una seria valutazione da parte dei Pastori. Mi soffermerò particolarmente, e persino con una certa meticolosità, sull’omelia e la sua preparazione, perché molti sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo chiudere le orecchie. L’omelia è la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità d’incontro di un Pastore con il suo popolo. Di fatto, sappiamo che i fedeli le danno molta importanza; ed essi, come gli stessi ministri ordinati, molte volte soffrono, gli uni ad ascoltare e gli altri a predicare. È triste che sia così. L’omelia può essere realmente un’intensa e felice esperienza dello Spirito, un confortante incontro con la Parola, una fonte costante di rinnovamento e di crescita. EG 135.

Occorre ora ricordare che «la proclamazione liturgica della Parola di Dio, soprattutto nel contesto dell’assemblea eucaristica, non è tanto un momento di meditazione e di catechesi, ma è il dialogo di Dio col suo popolo, dialogo in cui vengono proclamate le meraviglie della salvezza e continuamente riproposte le esigenze dell’Alleanza». EG 137.

 

Il dialogo tra Dio e il suo popolo rafforza ulteriormente l’alleanza tra di loro e rinsalda il vincolo della carità. Durante il tempo dell’omelia, i cuori dei credenti fanno silenzio e lasciano che parli Lui. Il Signore e il suo popolo si parlano in mille modi direttamente, senza intermediari. Tuttavia, nell’omelia, vogliono che qualcuno faccia da strumento ed esprima i sentimenti, in modo tale che in seguito ciascuno possa scegliere come continuare la conversazione. La parola è essenzialmente mediatrice e richiede non solo i due dialoganti ma anche un predicatore che la rappresenti come tale, convinto che «noi non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù » (2 Cor 4,5). EG 143

 

Il predicatore «per primo deve sviluppare una grande familiarità personale con la Parola di Dio: non gli basta conoscere l’aspetto linguistico o esegetico, che pure è necessario; gli occorre accostare la Parola con cuore docile e orante, perché essa penetri a fondo nei suoi pensieri e sentimenti e generi in lui una mentalità nuova». Ci fa bene rinnovare ogni giorno, ogni domenica, il nostro fervore nel preparare l’omelia, e verificare se dentro di noi cresce l’amore per la Parola che predichiamo. EG 149.

 

Chiunque voglia predicare, prima dev’essere disposto a lasciarsi commuovere dalla Parola e a farla diventare carne nella sua esistenza concreta. In questo modo, la predicazione consisterà in quell’attività tanto intensa e feconda che è «comunicare agli altri ciò che uno ha contemplato». EG 150

 

Non ci viene chiesto di essere immacolati, ma piuttosto che siamo sempre in crescita, che viviamo il desiderio profondo di progredire nella via del Vangelo, e non ci lasciamo cadere le braccia. La cosa indispensabile è che il predicatore abbia la certezza che Dio lo ama, che Gesù Cristo lo ha salvato, che il suo amore ha sempre l’ultima parola. Davanti a tanta bellezza, tante volte sentirà che la sua vita non le dà gloria pienamente e desidererà sinceramente rispondere meglio ad un amore così grande. Ma se non si sofferma ad ascoltare la Parola con sincera apertura, se non lascia che tocchi la sua vita, che lo metta in discussione, che lo esorti, che lo smuova, se non dedica un tempo per pregare con la Parola, allora sì sarà un falso profeta, un truffatore o un vuoto ciarlatano. In ogni caso, a partire dal riconoscimento della sua povertà e con il desiderio di impegnarsi maggiormente, potrà sempre donare Gesù Cristo, dicendo come Pietro: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do» (At 3,6). Il Signore vuole utilizzarci come esseri vivi, liberi e creativi, che si lasciano penetrare dalla sua Parola prima di trasmetterla; il suo messaggio deve passare realmente attraverso il predicatore, ma non solo attraverso la ragione, ma prendendo possesso di tutto il suo essere. Lo Spirito Santo, che ha ispirato la Parola, è Colui che «oggi come agli inizi della Chiesa, opera in ogni evangelizzatore che si lasci possedere e condurre da lui, che gli suggerisce le parole che da solo non saprebbe trovare». EG 151

Non credo che colui che si lascia toccare dalla Parola, che si lascia commuovere, che si lascia illuminare e guidare, riesca poi sempre a esprimere ciò che ha pregato. Non sempre si riesce a scaldare i cuori come fa Gesù con i discepoli di Emmaus, ma sono certo che la fede del popolo sa capire e comprendere quando il pastore vive come discepolo seguendo il nostro unico Pastore.

Il Papa da alcune indicazioni pratiche con rispetto all’ascolto della Parola di Dio e parla della “Lectio divina”

La lettura spirituale

Esiste una modalità concreta per ascoltare quello che il Signore vuole dirci nella sua Parola e per lasciarci trasformare dal suo Spirito. È ciò che chiamiamo lectio divina”. Consiste nella lettura della Parola di Dio all’interno di un momento di preghiera per permetterle di illuminarci e rinnovarci. EG 152.

 

Alla presenza di Dio, in una lettura calma del testo, è bene domandare, per esempio: «Signore, che cosa dice a me questo testo? Che cosa vuoi cambiare della mia vita con questo messaggio? Che cosa mi dà fastidio in questo testo? Perché questo non mi interessa?», oppure: «Che cosa mi piace, che cosa mi stimola in questa Parola? Che cosa mi attrae? Perché mi attrae?». Quando si cerca di ascoltare il Signore è normale avere tentazioni. Una di esse è semplicemente sentirsi infastidito o oppresso, e chiudersi; altra tentazione molto comune è iniziare a pensare quello che il testo dice agli altri, per evitare di applicarlo alla propria vita. Accade anche che uno inizia a cercare scuse che gli permettano di annacquare il messaggio specifico di un testo. Altre volte riteniamo che Dio esiga da noi una decisione troppo grande, che non siamo ancora in condizione di prendere. Questo porta molte persone a perdere la gioia dell’incontro con la Parola, ma questo vorrebbe dire dimenticare che nessuno è più paziente di Dio Padre, che nessuno comprende e sa aspettare come Lui. Egli invita sempre a fare un passo in più, ma non esige una risposta completa se ancora non abbiamo percorso il cammino che la rende possibile. Semplicemente desidera che guardiamo con sincerità alla nostra esistenza e la presentiamo senza finzioni ai suoi occhi, che siamo disposti a continuare a crescere, e che domandiamo a Lui ciò che ancora non riusciamo ad ottenere. EG 153.

In ascolto del popolo

Il predicatore deve anche porsi in ascolto del popolo, per scoprire quello che i fedeli hanno bisogno di sentirsi dire. Un predicatore è un contemplativo della Parola ed anche un contemplativo del popolo. In questo modo, egli scopre «le aspirazioni, le ricchezze e i limiti, i modi di pregare, di amare, di considerare la vita e il mondo, che contrassegnano un determinato ambito umano», prestando attenzione al «popolo concreto al quale si rivolge, se non utilizza la sua lingua, i suoi segni e simboli, se non risponde ai problemi da esso posti». EG 154.

 

Diceva già Paolo VI che i fedeli «si attendono molto da questa predicazione, e ne ricavano frutto purché essa sia semplice, chiara, diretta, adatta». La semplicità ha a che vedere con il linguaggio utilizzato. EG 158.

 

Oltre alla liturgia, un altro ambiente per la proclamazione e l’ascolto della Parola è la catechesi, i momenti formativi, l’annuncio del Kerigma…, ma soprattutto la responsabilità, il ministero dell’accompagnamento, dell’ascolto.

 

Un’evangelizzazione per l’approfondimento del kerygma

Il mandato missionario del Signore comprende l’appello alla crescita della fede quando indica: «insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,20). Così appare chiaro che il primo annuncio deve dar luogo anche ad un cammino di formazione e di maturazione. L’evangelizzazione cerca anche la crescita, il che implica prendere molto sul serio ogni persona e il progetto che il Signore ha su di essa. Ciascun essere umano ha sempre di più bisogno di Cristo, e l’evangelizzazione non dovrebbe consentire che qualcuno si accontenti di poco, ma che possa dire pienamente: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). EG 160.

La Chiesa dovrà iniziare i suoi membri – sacerdoti, religiosi e laici – a questa “arte dell’accompagnamento”, perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cfr Es 3,5). EG 169

 

Più che mai abbiamo bisogno di uomini e donne che, a partire dalla loro esperienza di accompagnamento, conoscano il modo di procedere, dove spiccano la prudenza, la capacità di comprensione, l’arte di aspettare, la docilità allo Spirito, per proteggere tutti insieme le pecore che si affidano a noi dai lupi che tentano di disgregare il gregge. Abbiamo bisogno di esercitarci nell’arte di ascoltare, che è più che sentire. La prima cosa, nella comunicazione con l’altro, è la capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro spirituale. L’ascolto ci aiuta ad individuare il gesto e la parola opportuna che ci smuove dalla tranquilla condizione di spettatori. Solo a partire da questo ascolto rispettoso e capace di compatire si possono trovare le vie per un’autentica crescita, si può risvegliare il desiderio dell’ideale cristiano, l’ansia di rispondere pienamente all’amore di Dio e l’anelito di sviluppare il meglio di quanto Dio ha seminato nella propria vita. EG 171.

 

In una riunione, si chiese a un oratore che declamasse il salmo 23, il salmo del buon pastore. Costui disse: “sono disposto ad una condizione, che dopo di me lo faccia anche il nostro parroco”. Il parroco un poco sorpreso accettò. L’oratore lesse con tanta bellezza il salmo cambiando tono, facendo enfasi in certe parole che alla fine tutti applaudirono con giubilo. Anche il sacerdote si apprestò a leggere il salmo, e seppe leggerlo con la bocca e con il cuore. Alla fine, un silenzio denso di meraviglia invase l’assemblea. Dopo alcuni secondi, che sembravano un’eternità, di nuovo prese la parola l’oratore e disse: “avete visto? Io ho declamato il salmo con la mia arte oratoria, so rispettare le parole, sono padrone delle pause, la respirazione, l’intonazione, conosco le parole, ma il nostro parroco è stato straordinario perché anche se non ha studiato oratoria, lui, è stato così speciale e ci ha emozionato perché conosce il Pastore…

“Lampada per i miei passi è la tua Parola” Sal 118, XIV

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Mercoledì 3 marzo2021

Rileggendo il primo numero della enciclica possiamo evidenziare che la gioia del Vangelo deve essere la caratteristica del credente, di coloro che incontrano il Signore, e liberati dalla tristezza rinascono alla gioia. I fedeli cristiani sono invitati a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni.” EG 1

Il contrario della gioia sono quelle situazioni che provocano una cronica scontentezza, un cuore stanco di lottare, la pigrizia che inaridisce cfr EG 2

Per questo è necessario concentrarsi sull’essenziale: “Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere. Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa.” EG 35

Iniziamo affrontando quelle che possono essere le tentazioni degli operatori pastorali:

Il Papa inizia riconoscendo il bene e la bellezza degli operatori pastorali…

“Sento una gratitudine immensa per l’impegno di tutti coloro che lavorano nella Chiesa. Non voglio soffermarmi ora ad esporre le attività dei diversi operatori pastorali, dai vescovi fino al più umile e nascosto dei servizi ecclesiali. Mi piacerebbe piuttosto riflettere sulle sfide che tutti loro devono affrontare nel contesto dell’attuale cultura globalizzata. Però, devo dire in primo luogo e come dovere di giustizia, che l’apporto della Chiesa nel mondo attuale è enorme. Il nostro dolore e la nostra vergogna per i peccati di alcuni membri della Chiesa, e per i propri, non devono far dimenticare quanti cristiani danno la vita per amore: aiutano tanta gente a curarsi o a morire in pace in precari ospedali, o accompagnano le persone rese schiave da diverse dipendenze nei luoghi più poveri della Terra, o si prodigano nell’educazione di bambini e giovani, o si prendono cura di anziani abbandonati da tutti, o cercano di comunicare valori in ambienti ostili, o si dedicano in molti altri modi, che mostrano l’immenso amore per l’umanità ispiratoci dal Dio fatto uomo. Ringrazio per il bell’esempio che mi danno tanti cristiani che offrono la loro vita e il loro tempo con gioia. Questa testimonianza mi fa tanto bene e mi sostiene nella mia personale aspirazione a superare l’egoismo per spendermi di più.” EG 76

“Ciononostante, come figli di questa epoca, tutti siamo in qualche modo sotto l’influsso della cultura attuale globalizzata, che, pur presentandoci valori e nuove possibilità, può anche limitarci, condizionarci e persino farci ammalare. Riconosco che abbiamo bisogno di creare spazi adatti a motivare e risanare gli operatori pastorali, «luoghi in cui rigenerare la propria fede in Gesù crocifisso e risorto, in cui condividere le proprie domande più profonde e le preoccupazioni del quotidiano, in cui discernere in profondità con criteri evangelici sulla propria esistenza ed esperienza, al fine di orientare al bene e al bello le proprie scelte individuali e sociali». Al tempo stesso, desidero richiamare l’attenzione su alcune tentazioni che specialmente oggi colpiscono gli operatori pastorali.” EG 77

Sì alla sfida di una spiritualità missionaria

“Oggi si può riscontrare in molti operatori pastorali, comprese persone consacrate, una preoccupazione esagerata per gli spazi personali di autonomia e di distensione, che porta a vivere i propri compiti come una mera appendice della vita, come se non facessero parte della propria identità. Nel medesimo tempo, la vita spirituale si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione. Così, si possono riscontrare in molti operatori di evangelizzazione, sebbene preghino, un’accentuazione dell’individualismo, una crisi d’identità e un calo del fervore. Sono tre mali che si alimentano l’uno con l’altro.” EG 78

No all’accidia egoista

“Quando abbiamo più bisogno di un dinamismo missionario che porti sale e luce al mondo, molti laici temono che qualcuno li inviti a realizzare qualche compito apostolico, e cercano di fuggire da qualsiasi impegno che possa togliere loro il tempo libero. Oggi, per esempio, è diventato molto difficile trovare catechisti preparati per le parrocchie e che perseverino nel loro compito per diversi anni. Ma qualcosa di simile accade con i sacerdoti, che si preoccupano con ossessione del loro tempo personale. Questo si deve frequentemente al fatto che le persone sentono il bisogno imperioso di preservare i loro spazi di autonomia, come se un compito di evangelizzazione fosse un veleno pericoloso invece che una gioiosa risposta all’amore di Dio che ci convoca alla missione e ci rende completi e fecondi. Alcuni fanno resistenza a provare fino in fondo il gusto della missione e rimangono avvolti in un’accidia paralizzante.” EG 81

No al pessimismo sterile

“La gioia del Vangelo è quella che niente e nessuno ci potrà mai togliere (cfr Gv 16,22). I mali del nostro mondo – e quelli della Chiesa – non dovrebbero essere scuse per ridurre il nostro impegno e il nostro fervore. Consideriamoli come sfide per crescere. Inoltre, lo sguardo di fede è capace di riconoscere la luce che sempre lo Spirito Santo diffonde in mezzo all’oscurità, senza dimenticare che «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20). La nostra fede è sfidata a intravedere il vino in cui l’acqua può essere trasformata, e a scoprire il grano che cresce in mezzo della zizzania.” EG 84

Sì alle relazioni nuove generate da Gesù Cristo

“Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. In questo modo, le maggiori possibilità di comunicazione si tradurranno in maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti. Se potessimo seguire questa strada, sarebbe una cosa tanto buona, tanto risanatrice, tanto liberatrice, tanto generatrice di speranza! Uscire da sé stessi per unirsi agli altri fa bene. Chiudersi in sé stessi significa assaggiare l’amaro veleno dell’immanenza, e l’umanità avrà la peggio in ogni scelta egoistica che facciamo.” EG 87

Lì sta la vera guarigione, dal momento che il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono. Proprio in questa epoca, e anche là dove sono un «piccolo gregge» (Lc 12,32), i discepoli del Signore sono chiamati a vivere come comunità che sia sale della terra e luce del mondo (cfr Mt 5,13-16). Sono chiamati a dare testimonianza di una appartenenza evangelizzatrice in maniera sempre nuova. Non lasciamoci rubare la comunità!” EG 92

No alla mondanità spirituale

“La mondanità spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa, consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere personale. È quello che il Signore rimproverava ai Farisei: «E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?» (Gv 5,44). Si tratta di un modo sottile di cercare «i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (Fil 2,21).” EG 93

No alla guerra tra di noi

All’interno del Popolo di Dio e nelle diverse comunità, quante guerre! Nel quartiere, nel posto di lavoro, quante guerre per invidie e gelosie, anche tra cristiani! La mondanità spirituale porta alcuni cristiani ad essere in guerra con altri cristiani che si frappongono alla loro ricerca di potere, di prestigio, di piacere o di sicurezza economica. Inoltre, alcuni smettono di vivere un’appartenenza cordiale alla Chiesa per alimentare uno spirito di contesa. Più che appartenere alla Chiesa intera, con la sua ricca varietà, appartengono a questo o quel gruppo che si sente differente o speciale.” EG 98

Tutto il Popolo di Dio annuncia il Vangelo

L’evangelizzazione è compito della Chiesa. Ma questo soggetto dell’evangelizzazione è ben più di una istituzione organica e gerarchica, poiché anzitutto è un popolo in cammino verso Dio. Si tratta certamente di un mistero che affonda le sue radici nella Trinità, ma che ha la sua concretezza storica in un popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale.” EG 111

Un popolo dai molti volti

“Questo Popolo di Dio si incarna nei popoli della Terra, ciascuno dei quali ha la propria cultura” EG 115

Se ben intesa, la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa. È lo Spirito Santo, inviato dal Padre e dal Figlio, che trasforma i nostri cuori e ci rende capaci di entrare nella comunione perfetta della Santissima Trinità, dove ogni cosa trova la sua unità. Egli costruisce la comunione e l’armonia del Popolo di Dio. Lo stesso Spirito Santo è l’armonia, così come è il vincolo d’amore tra il Padre e il Figlio.” EG 117

È lo Spirito Santo che ci unisce non una idea… tifosi del Napoli…. Partito democratico…. Ciò che li unisce è una idea a noi ci unisce una persona, Cristo

Tutti siamo discepoli missionari

“In tutti i battezzati, dal primo all’ultimo, opera la forza santificatrice dello Spirito che spinge ad evangelizzare.” EG 119

In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati. Questa convinzione si trasforma in un appello diretto ad ogni cristiano, perché nessuno rinunci al proprio impegno di evangelizzazione, dal momento che, se uno ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo salva, non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo, non può attendere che gli vengano impartite molte lezioni o lunghe istruzioni. Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù; non diciamo più che siamo “discepoli” e “missionari”, ma che siamo sempre “discepoli-missionari”. Se non siamo convinti, guardiamo ai primi discepoli, che immediatamente dopo aver conosciuto lo sguardo di Gesù, andavano a proclamarlo pieni di gioia: «Abbiamo incontrato il Messia» (Gv 1,41). La samaritana, non appena terminato il suo dialogo con Gesù, divenne missionaria, e molti samaritani credettero in Gesù «per la parola della donna» (Gv 4,39). Anche san Paolo, a partire dal suo incontro con Gesù Cristo, «subito annunciava che Gesù è il figlio di Dio» (At 9,20). E noi che cosa aspettiamo?” EG 120

Davanti a questa domanda di Papa Francesco vorrei concludere con una storiella

Salvare la tigre o salvare me stesso?

Una volta un tale ottenne di lavorare in un circo. Gli fu affidato il compito di prendersi cura dei due animali più preziosi che il circo avesse: un pony e una tigre. Ma accadde, per disgrazia, che il circo prese fuoco. L’uomo, conscio delle sue responsabilità, si disse: “Devo fare bene il mio lavoro!”. Si lanciò, quindi, tra le fiamme ed estrasse dalla sua stalla, in tutta fretta il pony. Poi tornò indietro per salvare la tigre; ma all’improvviso si rese conto del terribile dilemma in cui si era venuto a trovare: se non avesse estratto la tigre dall’incendio non avrebbe compiuto il suo dovere; se l’avesse messa in salvo, avrebbe corso il rischio di essere sbranato dalla belva… Doveva fare una scelta: o salvare la tigre o salvare sé stesso.

Non ci interessa quello che il nostro amico abbia deciso. Dio voglia si siano salvati entrambi! Ma il dilemma rimane, ed è il dilemma della nostra vita di discepoli missionari: Servire l’altro o servire me stesso; salvare l’altro o cercare la propria salvezza…

Ogni giorno sono chiamato a dare una risposta creativa gioiosa, evangelica alle mille situazioni della vita nella speranza che si configurino a quella di Gesù.

Non abbiate paura della tigre!!

Padre Gianfranco Zintu – Missionario della Consolata

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Mercoledì 3 marzo2021

Rileggendo il primo numero della enciclica possiamo evidenziare che la gioia del Vangelo deve essere la caratteristica del credente, di coloro che incontrano il Signore, e liberati dalla tristezza rinascono alla gioia. I fedeli cristiani sono invitati a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni.” EG 1

Il contrario della gioia sono quelle situazioni che provocano una cronica scontentezza, un cuore stanco di lottare, la pigrizia che inaridisce cfr EG 2

Per questo è necessario concentrarsi sull’essenziale: “Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere. Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa.” EG 35

Iniziamo affrontando quelle che possono essere le tentazioni degli operatori pastorali:

Il Papa inizia riconoscendo il bene e la bellezza degli operatori pastorali…

“Sento una gratitudine immensa per l’impegno di tutti coloro che lavorano nella Chiesa. Non voglio soffermarmi ora ad esporre le attività dei diversi operatori pastorali, dai vescovi fino al più umile e nascosto dei servizi ecclesiali. Mi piacerebbe piuttosto riflettere sulle sfide che tutti loro devono affrontare nel contesto dell’attuale cultura globalizzata. Però, devo dire in primo luogo e come dovere di giustizia, che l’apporto della Chiesa nel mondo attuale è enorme. Il nostro dolore e la nostra vergogna per i peccati di alcuni membri della Chiesa, e per i propri, non devono far dimenticare quanti cristiani danno la vita per amore: aiutano tanta gente a curarsi o a morire in pace in precari ospedali, o accompagnano le persone rese schiave da diverse dipendenze nei luoghi più poveri della Terra, o si prodigano nell’educazione di bambini e giovani, o si prendono cura di anziani abbandonati da tutti, o cercano di comunicare valori in ambienti ostili, o si dedicano in molti altri modi, che mostrano l’immenso amore per l’umanità ispiratoci dal Dio fatto uomo. Ringrazio per il bell’esempio che mi danno tanti cristiani che offrono la loro vita e il loro tempo con gioia. Questa testimonianza mi fa tanto bene e mi sostiene nella mia personale aspirazione a superare l’egoismo per spendermi di più.” EG 76

“Ciononostante, come figli di questa epoca, tutti siamo in qualche modo sotto l’influsso della cultura attuale globalizzata, che, pur presentandoci valori e nuove possibilità, può anche limitarci, condizionarci e persino farci ammalare. Riconosco che abbiamo bisogno di creare spazi adatti a motivare e risanare gli operatori pastorali, «luoghi in cui rigenerare la propria fede in Gesù crocifisso e risorto, in cui condividere le proprie domande più profonde e le preoccupazioni del quotidiano, in cui discernere in profondità con criteri evangelici sulla propria esistenza ed esperienza, al fine di orientare al bene e al bello le proprie scelte individuali e sociali». Al tempo stesso, desidero richiamare l’attenzione su alcune tentazioni che specialmente oggi colpiscono gli operatori pastorali.” EG 77

Sì alla sfida di una spiritualità missionaria

“Oggi si può riscontrare in molti operatori pastorali, comprese persone consacrate, una preoccupazione esagerata per gli spazi personali di autonomia e di distensione, che porta a vivere i propri compiti come una mera appendice della vita, come se non facessero parte della propria identità. Nel medesimo tempo, la vita spirituale si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione. Così, si possono riscontrare in molti operatori di evangelizzazione, sebbene preghino, un’accentuazione dell’individualismo, una crisi d’identità e un calo del fervore. Sono tre mali che si alimentano l’uno con l’altro.” EG 78

No all’accidia egoista

“Quando abbiamo più bisogno di un dinamismo missionario che porti sale e luce al mondo, molti laici temono che qualcuno li inviti a realizzare qualche compito apostolico, e cercano di fuggire da qualsiasi impegno che possa togliere loro il tempo libero. Oggi, per esempio, è diventato molto difficile trovare catechisti preparati per le parrocchie e che perseverino nel loro compito per diversi anni. Ma qualcosa di simile accade con i sacerdoti, che si preoccupano con ossessione del loro tempo personale. Questo si deve frequentemente al fatto che le persone sentono il bisogno imperioso di preservare i loro spazi di autonomia, come se un compito di evangelizzazione fosse un veleno pericoloso invece che una gioiosa risposta all’amore di Dio che ci convoca alla missione e ci rende completi e fecondi. Alcuni fanno resistenza a provare fino in fondo il gusto della missione e rimangono avvolti in un’accidia paralizzante.” EG 81

No al pessimismo sterile

“La gioia del Vangelo è quella che niente e nessuno ci potrà mai togliere (cfr Gv 16,22). I mali del nostro mondo – e quelli della Chiesa – non dovrebbero essere scuse per ridurre il nostro impegno e il nostro fervore. Consideriamoli come sfide per crescere. Inoltre, lo sguardo di fede è capace di riconoscere la luce che sempre lo Spirito Santo diffonde in mezzo all’oscurità, senza dimenticare che «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20). La nostra fede è sfidata a intravedere il vino in cui l’acqua può essere trasformata, e a scoprire il grano che cresce in mezzo della zizzania.” EG 84

Sì alle relazioni nuove generate da Gesù Cristo

“Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. In questo modo, le maggiori possibilità di comunicazione si tradurranno in maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti. Se potessimo seguire questa strada, sarebbe una cosa tanto buona, tanto risanatrice, tanto liberatrice, tanto generatrice di speranza! Uscire da sé stessi per unirsi agli altri fa bene. Chiudersi in sé stessi significa assaggiare l’amaro veleno dell’immanenza, e l’umanità avrà la peggio in ogni scelta egoistica che facciamo.” EG 87

Lì sta la vera guarigione, dal momento che il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono. Proprio in questa epoca, e anche là dove sono un «piccolo gregge» (Lc 12,32), i discepoli del Signore sono chiamati a vivere come comunità che sia sale della terra e luce del mondo (cfr Mt 5,13-16). Sono chiamati a dare testimonianza di una appartenenza evangelizzatrice in maniera sempre nuova. Non lasciamoci rubare la comunità!” EG 92

No alla mondanità spirituale

“La mondanità spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa, consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere personale. È quello che il Signore rimproverava ai Farisei: «E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?» (Gv 5,44). Si tratta di un modo sottile di cercare «i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (Fil 2,21).” EG 93

No alla guerra tra di noi

All’interno del Popolo di Dio e nelle diverse comunità, quante guerre! Nel quartiere, nel posto di lavoro, quante guerre per invidie e gelosie, anche tra cristiani! La mondanità spirituale porta alcuni cristiani ad essere in guerra con altri cristiani che si frappongono alla loro ricerca di potere, di prestigio, di piacere o di sicurezza economica. Inoltre, alcuni smettono di vivere un’appartenenza cordiale alla Chiesa per alimentare uno spirito di contesa. Più che appartenere alla Chiesa intera, con la sua ricca varietà, appartengono a questo o quel gruppo che si sente differente o speciale.” EG 98

Tutto il Popolo di Dio annuncia il Vangelo

L’evangelizzazione è compito della Chiesa. Ma questo soggetto dell’evangelizzazione è ben più di una istituzione organica e gerarchica, poiché anzitutto è un popolo in cammino verso Dio. Si tratta certamente di un mistero che affonda le sue radici nella Trinità, ma che ha la sua concretezza storica in un popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale.” EG 111

Un popolo dai molti volti

“Questo Popolo di Dio si incarna nei popoli della Terra, ciascuno dei quali ha la propria cultura” EG 115

Se ben intesa, la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa. È lo Spirito Santo, inviato dal Padre e dal Figlio, che trasforma i nostri cuori e ci rende capaci di entrare nella comunione perfetta della Santissima Trinità, dove ogni cosa trova la sua unità. Egli costruisce la comunione e l’armonia del Popolo di Dio. Lo stesso Spirito Santo è l’armonia, così come è il vincolo d’amore tra il Padre e il Figlio.” EG 117

È lo Spirito Santo che ci unisce non una idea… tifosi del Napoli…. Partito democratico…. Ciò che li unisce è una idea a noi ci unisce una persona, Cristo

Tutti siamo discepoli missionari

“In tutti i battezzati, dal primo all’ultimo, opera la forza santificatrice dello Spirito che spinge ad evangelizzare.” EG 119

In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati. Questa convinzione si trasforma in un appello diretto ad ogni cristiano, perché nessuno rinunci al proprio impegno di evangelizzazione, dal momento che, se uno ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo salva, non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo, non può attendere che gli vengano impartite molte lezioni o lunghe istruzioni. Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù; non diciamo più che siamo “discepoli” e “missionari”, ma che siamo sempre “discepoli-missionari”. Se non siamo convinti, guardiamo ai primi discepoli, che immediatamente dopo aver conosciuto lo sguardo di Gesù, andavano a proclamarlo pieni di gioia: «Abbiamo incontrato il Messia» (Gv 1,41). La samaritana, non appena terminato il suo dialogo con Gesù, divenne missionaria, e molti samaritani credettero in Gesù «per la parola della donna» (Gv 4,39). Anche san Paolo, a partire dal suo incontro con Gesù Cristo, «subito annunciava che Gesù è il figlio di Dio» (At 9,20). E noi che cosa aspettiamo?” EG 120

Davanti a questa domanda di Papa Francesco vorrei concludere con una storiella

Salvare la tigre o salvare me stesso?

Una volta un tale ottenne di lavorare in un circo. Gli fu affidato il compito di prendersi cura dei due animali più preziosi che il circo avesse: un pony e una tigre. Ma accadde, per disgrazia, che il circo prese fuoco. L’uomo, conscio delle sue responsabilità, si disse: “Devo fare bene il mio lavoro!”. Si lanciò, quindi, tra le fiamme ed estrasse dalla sua stalla, in tutta fretta il pony. Poi tornò indietro per salvare la tigre; ma all’improvviso si rese conto del terribile dilemma in cui si era venuto a trovare: se non avesse estratto la tigre dall’incendio non avrebbe compiuto il suo dovere; se l’avesse messa in salvo, avrebbe corso il rischio di essere sbranato dalla belva… Doveva fare una scelta: o salvare la tigre o salvare sé stesso.

Non ci interessa quello che il nostro amico abbia deciso. Dio voglia si siano salvati entrambi! Ma il dilemma rimane, ed è il dilemma della nostra vita di discepoli missionari: Servire l’altro o servire me stesso; salvare l’altro o cercare la propria salvezza…

Ogni giorno sono chiamato a dare una risposta creativa gioiosa, evangelica alle mille situazioni della vita nella speranza che si configurino a quella di Gesù.

Non abbiate paura della tigre!!

Padre Gianfranco Zintu – Missionario della Consolata